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Giovanni Battista Paggi (Genova, 1554 -1627)
Olio su tela, cm. 146 x 114 (firmato e datato in basso a destra, sulla base di una colonna: “G Batt . Paggi . 1615”)
Appartenente a una famiglia nobile, Giovan Battista Paggi è una delle figure più interessanti della scuola pittorica genovese tra XVI e XVII secolo. Educatosi all’arte al di fuori delle logiche di bottega cittadine, privatamente, incoraggiato dall’affermato maestro Luca Cambiaso, è costretto nel 1581 a scappare dalla Repubblica di Genova a causa di una condanna per omicidio, riparando a Firenze e lavorando per quasi vent’anni per committenti vicini alla corte granducale e per gli stessi Francesco I e Ferdinando I de’ Medici, come ritrattista e inventore di apparati effimeri.
La familiarità con pittori della città toscana come Jacopo Ligozzi, Cigoli e Passignano, e l’amicizia di stimati scultori come Giambologna e Francavilla, lo resero da subito – al suo rientro in patria nel 1599 – caposcuola del rinnovamento della pittura genovese, portavoce di un nuovo colorismo fatto di toni cangianti e iridescenti e di delicati trapassi cromatici e chiaroscurali.
Firmata e datata 1615, la Flagellazione di Palazzo Bianco, di cui non si conosce l’originaria destinazione, è opera di un artista maturo, ormai pienamente inserito nei circuiti “alti” della committenza cittadina: alle acquisite novità della pittura “riformata” toscana – la ricchezza delle cromie e l’attenzione ai particolari ricercati, quali la descrizione della stoffa del perizoma di Cristo – Paggi accosta un recupero della tradizione cambiasesca genovese, nell’impaginazione della scena come in singoli dettagli quali il caratteristico svolazzo del gonnellino del manigoldo alla destra del Redentore, che ricorda quello di tante figure di Cambiaso. Di ascendenza toscana è ancora il trattamento sfumato e atmosferico delle tinte nelle figure in secondo piano e l’acquisita capacità di colorare sempre intensamente ombre e penombre, fatte di riflessi e controluce.
Paggi aveva già dipinto una Flagellazione di Cristo nel 1591, in un dipinto vicino a quello in esame, pur se più decisamente “toscano” nelle cromie, realizzato per la committenza di Giovanni Andrea I Doria e oggi conservato in Palazzo Spinola di Pellicceria.