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Domenico Fiasella, detto il Sarzana (Sarzana, 1589 - Genova, 1669)
Olio su tela, cm. 92,5 x 77
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Domenico Fiasella, detto il Sarzana (Sarzana, 1589 - Genova, 1669)
Olio su tela, cm. 92,5 x 77
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Gio.Bernardo Carbone (Genova, 1616-1683)
Olio su tela, cm. 236 x 156
Il ritratto della gentildonna vicino alla fontana è una delle opere migliori dell'artista genovese e vi sono evidenti, tradotti in un linguaggio borghese, gli influssi della ritrattistica di Rubens e di Van Dyck: infatti la gentildonna del ritratto ricorda, per l'impostazione della figura, Paolina Adorno Brignole - Sale del pittore fiammingo conservata in Palazzo Rosso, anche se la tela di Carbone è decisamente inferiore per qualità pittorica.
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Luciano Borzone (Genova, 1590-1645)
Olio su tela, cm. 79 x 69
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Venere e Amore
A. Porcile, ved. Vassallo 1907 Genova - acquisto
Paggi, Giovanni Battista
dipinto
1590 - 1590 - sec. XVII
PB 1409
Unità di misura: cm; Altezza: 95; Larghezza: 74
olio su tela
El Esplendor de Génova - Bilbao - 2003-2004
Verdammte Lust! Kirche. Korper. Kunst - Frisinga (Germania) - 2023
Il dipinto sembra essere il prototipo per altre due redazioni note del soggetto, oggi conservate nella collezione d'arte di Banca Carige e alla Dulwich Picture Gallery di Londra. Realizzato dopo il 1590, esso fu probabilmente ritagliato nel corso del XVIII secolo per essere adattato ad una cornice ovale. All'origine della composizione concepita da Paggi si trova la produzione di Luca Cambiaso, studiata dall'artista all'inizio della sua carriera, in particolare il dipinto di analogo soggetto conservato all'Art Institute di Chicago, dal quale trasse non solo il gusto per la raffigurazione dei gioielli, ma anche la resa "morbida" in toni caldi dei corpi. La composizione è stata tradotta in incisione con qualche minima variante dal fiammingo Cornelis Galle I, probabilmente a partire da un disegno del maestro genovese. (BESTA in Frisinga 2023, p. 63) Il dipinto raffigura Venere e Cupido colti in un intimo abbraccio.
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Giovanni Battista Paggi (Genova, 1554 -1627)
Olio su tela, cm. 146 x 114 (firmato e datato in basso a destra, sulla base di una colonna: “G Batt . Paggi . 1615”)
Appartenente a una famiglia nobile, Giovan Battista Paggi è una delle figure più interessanti della scuola pittorica genovese tra XVI e XVII secolo. Educatosi all’arte al di fuori delle logiche di bottega cittadine, privatamente, incoraggiato dall’affermato maestro Luca Cambiaso, è costretto nel 1581 a scappare dalla Repubblica di Genova a causa di una condanna per omicidio, riparando a Firenze e lavorando per quasi vent’anni per committenti vicini alla corte granducale e per gli stessi Francesco I e Ferdinando I de’ Medici, come ritrattista e inventore di apparati effimeri.
La familiarità con pittori della città toscana come Jacopo Ligozzi, Cigoli e Passignano, e l’amicizia di stimati scultori come Giambologna e Francavilla, lo resero da subito – al suo rientro in patria nel 1599 – caposcuola del rinnovamento della pittura genovese, portavoce di un nuovo colorismo fatto di toni cangianti e iridescenti e di delicati trapassi cromatici e chiaroscurali.
Firmata e datata 1615, la Flagellazione di Palazzo Bianco, di cui non si conosce l’originaria destinazione, è opera di un artista maturo, ormai pienamente inserito nei circuiti “alti” della committenza cittadina: alle acquisite novità della pittura “riformata” toscana – la ricchezza delle cromie e l’attenzione ai particolari ricercati, quali la descrizione della stoffa del perizoma di Cristo – Paggi accosta un recupero della tradizione cambiasesca genovese, nell’impaginazione della scena come in singoli dettagli quali il caratteristico svolazzo del gonnellino del manigoldo alla destra del Redentore, che ricorda quello di tante figure di Cambiaso. Di ascendenza toscana è ancora il trattamento sfumato e atmosferico delle tinte nelle figure in secondo piano e l’acquisita capacità di colorare sempre intensamente ombre e penombre, fatte di riflessi e controluce.
Paggi aveva già dipinto una Flagellazione di Cristo nel 1591, in un dipinto vicino a quello in esame, pur se più decisamente “toscano” nelle cromie, realizzato per la committenza di Giovanni Andrea I Doria e oggi conservato in Palazzo Spinola di Pellicceria.
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Bernardo Castello (Genova, 1557-1629)
Olio su tela, cm. 173 x 149 (datato 1626)
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Giovanni Battista Paggi (Genova, 1554 -1627)
Olio su tela, cm. 46 x 32,5
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Salomè offre a Erodiade la testa del Battista
Ansaldo, Andrea
dipinto
1630 - 1630 - sec. XVII
PB 513
Unità di misura: cm; Altezza: 139; Larghezza: 127,5
olio su tela
Il dipinto è databile al 1630 circa, momento in cui il pittore rivolge la propria attenzione alla grande pittura veneziana del Cinquecento, in particolare alla produzione di Paolo Veronese, dalla quale trae efficacemente composizioni dalle maestose scenografie e dai toni brillanti. Nel caso della tela in esame, l'ariosa scalinata è funzionale a mettere in diretta comunicazione il primo piano con il secondo, tra i quali si svolge la scena raffigurata. Il boia, in cima alla scala, ha appena decapitato il Battista e sta rinfoderando la spada, mentre la testa del santo si trova già sul piatto tenuto in mano da Salomè e da questa offerto alla madre Erodiade. Quest'ultima, nel totale sgomento dei commensali, ha sguainato un pugnale e sta per trafiggere la lingua di Giovanni: si tratta di una vicenda che non trova riscontro nei Vangeli, ma viene narrata da san Gerolamo nella sua Apologia aversus libros Rufini (Serra 2010, p. 112).
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Battesimo di Cristo
Borzone, Luciano
dipinto
1620 - 1621 - XVII
PB 348
Unità di misura: cm; Altezza: 252,5; Larghezza: 163
olio su tela
Questo grande dipinto di Luciano Borzone, pittore genovese assai vicino ai modi degli artisti lombardi Procaccini, Crespi e Cerano, costituiva la pala d’altare della cappella di san Giovanni nella chiesa di Santo Spirito a Genova, di cui Borzone aveva firmato tutto l’apparato decorativo. Esso constava di altre sei tele, di dimensioni minori, purtroppo disperse in seguito allo scioglimento degli ordini religiosi, attuato dal 1798 dalla Repubblica Ligure, rendendo impossibile oggi la ricostruzione dell’insieme. Le opere del Borzone “per essere colorite con forza e molto bene studiate nel componimento indussero Orazio Gentileschi a ricercar chi ne fosse l’autore, e visitarlo in sua casa per acquistarne l’amicizia, che fu tra loro mentre vissero inseparabile”: così il Soprani, nella sua “Vita de’ Pittori e Scultori e Architetti Genovesi” (1674), riferisce l’impressione che un artista di fama come Gentileschi ebbe vedendo l’arte del maestro genovese. La menzione di Gentileschi fornisce anche il terminus ante quem dell’esecuzione dell’opera che si colloca fra il 1620, data della costruzione della cappella e il 1621, quando il maestro, durante il suo soggiorno genovese, la vide. Si tratta di un’opera giovanile, dunque, ma già capolavoro, in cui il maestro riesce a coniugare sapientemente la cultura veneta con quella toscana. La sobrietà dell’impianto scenico, su cui giocano una smagliante veste cromatica e gli effetti luministici chiaroscurali, fa elegantemente risaltare l’imponenza di una cerimonia meditata, solenne, ma insieme affettuosa. La deliziosa scenetta dei putti intenti a interpretare l’iscrizione sul bindello dimenticato dal Battista, costituisce una prova di bravura nella resa del morbido chiaroscuro, contribuendo ad attenuare il tono austero dell’insieme. Il dipinto rappresenta Cristo mentre viene batezzato da Giovanni Battista. Attorno alla scena putti e angeli.
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La cattura di Cristo
Castello, Giovanni Battista
dipinto
1562 - 1562 - sec. XVI
PB 902
Unità di misura: cm; Altezza: 298; Larghezza: 245
olio su tela
Il dipinto proviene dalla distrutta chiesa medievale genovese di San Francesco di Castelletto, prestigiosa sede dei Francescani in città costruita nel XIII secolo e demolita in varie fasi a partire dal 1797 quando, a seguito della dominazione francese, anche la ‘rivoluzionaria’ Repubblica Ligure viene interessata dalla soppressione degli Ordini religiosi. Come in moltissimi altri casi, la distruzione dell’edificio sacro comportò la dispersione di apparati decorativi e di arredo di notevole valore: la tela in oggetto, in particolare, faceva parte del decoro della prima cappella a sinistra del presbiterio della chiesa, per la quale Antonio Maria Grimaldi, nel 1562, aveva commissionato una serie di dipinti e affreschi, tutti rappresentanti episodi della vita di Cristo, al pittore lombardo Giovan Battista Castello detto il Bergamasco. Originario della cittadina di Crema, l’artista si afferma in Genova nella seconda metà del Cinquecento come uno dei più abili frescanti e decoratori per la committenza aristocratica cittadina, allora impegnata nella realizzazione di sontuose dimore rinascimentali in città e in villa. Aggiornato sulle novità della ‘maniera’ romana, in quest’opera il pittore presta grande attenzione alle rispondenze cromatiche, utilizzando prevalentemente i toni del giallo, del verde, dell’arancio e del rosa per dipingere gli abiti – talora di foggia cinquecentesca - del Cristo, dei suoi discepoli e degli inviati dei sommi sacerdoti. Acquista in tal modo evidenza l’azzurra veste di Pietro, rappresentato - secondo quanto narrato dal vangelo di Giovanni - mentre taglia un orecchio a Malco, uno degli inservienti del tempio: è questo, accanto alla cattura del Cristo, il secondo nodo drammatico della rappresentazione che, ambientata in un antro scuro solo rischiarato dalle fiaccole degli astanti, deve unicamente il suo impianto prospettico agli abili scorci delle figure in movimento. Il dipinto rappresenta al centro la figura di Cristo mentre viene catturatto. Intorno a lui i i discepoli e soldati.
Sede:
Comune di Genova - Palazzo Tursi
Via Garibaldi 9 - 16124 Genova
C.F. / P.iva 00856930102