Antoon van Dyck, Ritratto di Ansaldo Pallavicino bambino

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Antoon Van Dyck (Anversa, 1599 - Londra, 1641)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 108 x 64 cm

 

Dell'opera originaria si conserva la parte dedicata al ritratto del piccolo Ansaldo mentre è dispersa la parte con il ritratto del padre Agostino Pallavicino che si suppone completasse il dipinto, purtroppo tagliato già nel corso del Seicento e poi reintegrato in modo da permetterne l'inserimento nella quadreria dei salotti di Maddalena a inizio Settecento. In ottemperanza a criteri di restauro filologico nel restauro degli anni Sessanta del Novecento la tela fu quindi liberata dall'aggiunta e portata alle attuali dimensioni.

Il duplice ritratto era il secondo incarico dato dal Pallavicino al pittore anversano al quale aveva infatti già commissionato nel 1621 il suntuoso ritratto di sé, ora al Paul Getty Center di Los Angeles, in occasione dell'Ambasceria presso papa Gregorio XV. Nel 1625 Agostino si rivolse nuovamente all'artista fiammingo da poco presente a Genova chiedendogli, questa volta in occasione della sua nomina a protettore del Banco di San Giorgio, un ritratto con accanto a sé il piccolo Ansaldo, suo erede.

Scuola di Anton Maria Maragliano, statuine del presepe

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Scuola di Anton Maria Maragliano, XVIII secolo

Tipologia:

Statuine

Tecnica e misure:

Legno e stoffa, altezza da 40 a 65 cm

 

Dalla fine dell’Ottocento nelle guide e nelle cronache genovesi sono ricorrenti le notizie sui presepi allestiti dai padri cappuccini, segno di un particolare legame dei religiosi con questa tradizione.

Nei depositi del Museo dei Cappuccini sono state raccolte nel tempo numerose figure da presepe provenienti da diversi conventi cappuccini della Liguria. Ormai da oltre dieci anni è iniziata un’operazione di recupero e restauro di questi pregevoli manufatti tra i quali spicca senza dubbio il nucleo di manichini abbigliati proveniente dal convento dei cappuccini di Sarzana.

Di grande valore artistico è il maestoso corteo dei Re Magi attribuito alla bottega di Anton Maria Maragliano (Genova, 1664 - 1739). Il famoso scultore, del quale non è documentata con certezza la realizzazione di manichini abbigliati, soleva servirsi di allievi ai quali forniva i modelli su cui basarsi per la loro realizzazione riservando per se la produzione di casse processionali e sculture o gruppi lignei di dimensioni ben maggiori.

Di assoluto pregio sono le statuine realizzate da Pasquale Navone (Genova, 1746 -1791), uno dei più illustri seguaci dell’opera del Maragliano: si tratta di diversi pastori, contadine e popolane riconoscibili per le dimensioni maggiori rispetto a quelle delle altre statuine del gruppo e per la ricercatezza e finezza dei lineamenti e degli incarnati.

Inoltre, merita una menzione a parte la figura del mendicante, tipica del presepe genovese, che spicca in suggestivo contrasto con lo sfarzo del corteo magnifico dei Re Magi. Questa è abbigliata con il tessuto jeans, materiale la cui etimologia deriva dalla parola Genes, Genova, poiché il celebre tessuto americano altro non è che il diretto discendente del Blu di Genova, tela di cotone lavorata e tinteggiata a Genova che veniva utilizzata per i carichi delle navi che solcavano i mari dirette verso il Nuovo Mondo.

Presepe meccanico di Franco Curti

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Franco Curti

Tipologia:

Presepe

Tecnica e misure:

900 x 400 x 500 cm

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La lunga storia di questo presepe inizia negli anni '30 e nel 1947 è documentato che il suo costruttore Franco Curti lo abbia esposto a Carmagnola, suo paese d’origine. Passano gli anni e il presepe inizia a diventare famoso in tutto il Piemonte e in Liguria e dieci anni più tardi i visitatori erano già saliti a circa duecentomila. Nel 1976 Franco dona la sua opera ai Cappuccini della Liguria nelle mani di padre Romano da Calice che lo gestisce dal 1976 al 1983. Nel 1984 padre Romano cede il passo a un suo confratello più giovane, padre Andrea Caruso che porta avanti la tradizione itinerante per i conventi della Liguria fino al 2006.

Dal 2007 il presepe inizia la sua seconda vita entrando a far parte della collezione del Museo dei Cappuccini di Genova, dove ogni anno, nel periodo di Natale, è visitabile.

“Se la rievocazione di questo avvenimento, pur nella sua semplicità, dopo duemila anni attira ancora così tanti visitatori e può suscitare un po’ di quel divino messaggio, penso di poter dire che non sono state inutilmente sprecate le 12000 ore che ho dedicato alla costruzione del mio presepe”. Così parlava nel 1972 Franco Curti.

Ciò che non si vede guardando il presepe sono i 7 motori che danno i movimenti; 307 lampadine variano la luce creando il giorno, l’aurora e la notte; 205 cuscinetti a sfere e 273 tra ruote, pulegge e ingranaggi sincronizzati fanno muovere tutti i personaggi. La ruota che fa più giri è quella dei motori (1400 giri al minuto), la più lenta quella degli effetti di luce (1 giro ogni 3 minuti).

Le costruzioni del presepe sono tutte costruite in traforo, le statue, in maggioranza, sono scolpite a mano da artigiani della Val Gardena. I personaggi in movimento sono oltre 150 e la parte centrale è un trittico di 40 metri quadrati composto dalla ricostruzione di Betania, Gerusalemme e Betlemme al tempo di Gesù. Cadute d’acqua, vedute panoramiche orientali, degradanti cambi di luce e un sottofondo musicale completano il quadro suggestivo della natività.

Completano l’opera 5 quadri meccanici con le Profezie dei Profeti Isaia, Michea e Malachia, la ricerca dell’alloggio e l’Adorazione dei Magi.

 

Statua bifronte con Madonna e Bambino e sant’Antonio e Bambino

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Ignoto scultore genovese, seconda metà del XVII secolo

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Marmo scolpito, 123 x 86 x 79 cm

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La scultura è un manufatto unico nel panorama ligure, un marmo scolpito su ambo i lati raffigurante Sant’Antonio da Padova con Gesù e la Vergine con il Bambino. L’opera, recentemente musealizzata, è entrata a far parte delle collezioni del museo mantenendo una tradizionale attribuzione all’ambito di Pierre Puget.

In precedenza la scultura era collocata su uno degli ingressi laterali della Villa Duchessa di Galliera a Voltri, in comunicazione con la vicina chiesa cappuccina di San Francesco. La posizione in uno spazio esterno ha esposto il marmo all’azione degli agenti atmosferici, depauperandone la superficie lapidea e compromettendo la corretta lettura del modellato della scultura, che acquisisce così un valore involontariamente espressivo, caratterizzando nervosamente il ductus del lavoro dello scultore.

L’ascrizione dell’opera ad ambito pugetiano, da rigettare, rileva come l’autore debba essere cercato in un artista attivo nella Genova della seconda metà del XVII secolo, dove a partire dal settimo e ottavo decennio, metabolizzata la lezione di Puget, accanto alle botteghe delle maestranze lombarde, opererà il genovese Filippo Parodi e una generazione di artisti che aveva puntualizzato la sua formazione a Roma. L’ignoto scultore si trova a dover restituire due immagini distinte in un blocco di marmo, cucendo insieme le porzioni laterali con una certa abilità, dove i profili del Santo e di Maria si fondono in un unico volto dai tratti somatici androgini. Le immagini insistono su una tradizione iconografica consolidata nella pittura genovese secentesca: Valerio Castello aveva proposto nelle sue tele i dialoghi fatti di gesti e sguardi, carichi di un trasporto affettivo, come nella madre con il bimbo nella pala della Chiesa di Santa Zita, o nella tenera carezza di Gesù al san Giovannino della tela di Nantes. Un atteggiarsi intimo che si ritrova nella Madonna Carrega di Puget, dove il Bimbo richiama con la mano paffuta l’attenzione della genitrice assorta, anche se nel marmo in oggetto l’artista si sofferma a descrivere l’intensità emotiva dell’incontro, giocato sullo scambio di sguardi che intercorre tra i protagonisti. Sant’Antonio, in posizione stante, stringe a sé il Bambino arretrando con un leggero movimento la gamba destra, sul lato opposto la figura si anima pacatamente attraverso l’espediente di un vento che schiaccia sulle gambe della Vergine il mantello, come nelle opere di Puget e di Parodi.

L’evidente assimilazione dei modelli pugetiani e parodiani fa proporre per l’opera una datazione all’ultimo decennio del Seicento, quando il tema sacro svuotato di accenti patetici per un tono più lieve e sommesso, acquista una progressiva stilizzazione delle forme e dei tratti distintivi, come il taglio degli occhi che si fa più affilato, puntualmente riscontrati nella scultura bifronte del museo cappuccino.

 

Bernardo Strozzi, La Vergine porge il Bambino al Beato Felice da Cantalice

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Bernardo Strozzi, detto il Cappuccino (Campo Ligure o Genova, 1582 - Venezia, 1644)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela monocromo, 168 x 118 cm

 

Recuperate da Padre Cassiano da Langasco, rispettivamente nel convento dei Cappuccini di Varazze e in quello di Santa Margherita Ligure, queste due grisailles raffigurano un soggetto molto caro alla devozione cappuccina: l’apparizione della Vergine a Felice da Cantalice che riceve dalle braccia di lei il Bambino, durante la notte di Natale, alla presenza di frate Lupo.

Il dipinto proveniente da Varazze è opera concordemente attribuita a Bernardo Strozzi.

L’ambientazione notturna della scena, illuminata dal chiarore della luce proveniente dall’alto, appare felicemente risolta nell’adozione della tecnica a monocromo, giocata su toni freddi e animata da rialzi nervosi dei bianchi che conferiscono una qualità vibrante all’immagine.

Nello spazio appena evocato della chiesa, l’artista inserisce sul primo piano il corredo per la questua del frate, splendido brano di natura morta, mentre alle spalle del gruppo figurale, lo spazio è reso indefinito dall’inserimento delle nuvole. La Madonna è assisa su di una nuvola nell’atto di porgere il Bambino al Beato, alle sue spalle un angelo le sorregge il manto. L’opera è senza dubbio connessa con la pala di uguale soggetto conservata nella chiesa dei Cappuccini della Santissima Concezione a Genova, dalla quale si distacca per alcune varianti.

Secondo Rita Dugoni il monocromo costituirebbe un abbozzo o un modello per la pala, commissionata allo Strozzi in occasione della beatificazione del frate, avvenuta nel 1625.

L’utilizzo della tecnica a monocromo nell’ambito dei processi compositivi dell’artista sarebbe testimoniato del resto dallo Studio di compianto su Cristo morto della galleria di Palazzo Bianco a Genova. Da Franco Pesenti era stata ipotizzata una datazione anteriore agli anni ‘20 e, sempre dallo studioso, la grisaille veniva ritenuta come concepita autonomamente e riutilizzata, a distanza di qualche anno, per l’elaborazione della pala della Concezione.

Il secondo monocromo, interessato da un consistente intervento di restauro nel 1965, risulta di difficile lettura poiché la pellicola pittorica originale è compromessa in molte zone.

Il dipinto è variamente assegnato a Giovanni Andrea De Ferrari. La presenza di brani di notevole qualità, rintracciabili in particolare nella figura della Vergine, nel velo dispiegato dall’angelo nelle mani di frate Felice, e di zone meno risolte e caratterizzate da una pennellata più compatta, portano a considerare l’opera come uscita dalla bottega dell’artista, presumibilmente con l’intervento del maestro.

La presenza di alcune varianti rispetto al monocromo di sicura autografia strozzesca appare di un certo interesse: la maggiore definizione del volto di frate Felice, il delinearsi dei tratti di frate Lupo e la riduzione del nodo che l’Angelo stringe nella mano destra, sembrano documentare una fase di elaborazione intermedia tra il monocromo di certa autografia e la pala della Santissima Concezione.

Gandolfino da Roreto, Madonna annunciata

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Gandolfino da Roreto

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Tecnica mista (recto) e tempera (verso) su tavola, 109 x 82 cm

 

Questa preziosa testimonianza figurativa, decurtata in corrispondenza di tutti e quattro i lati, venne contemporaneamente sottoposta all’attenzione della critica nel 1980 da parte di Maurizia Migliorini e Anna De Floriani. Quest’ultima studiosa, pubblicando gli esiti dell’importante intervento di restauro che contribuì al ripristino della piena leggibilità dell’immagine, raggiunta mediante la rimozione di fuorvianti grossolane ridipinture, ne suggerì, anche in considerazione dell’impiego della quercia quale essenza, un ipotetico accostamento al pennello di un anonimo pittore formatosi in ambito francese e attivo nei decenni immediatamente successivi alla metà del Quattrocento “a conoscenza dei fenomeni prodottisi soprattutto nella Francia meridionale”, come poi ribadito anche da Laura Martini. Una valida indicazione che, correggendo la contemporanea proposta della Migliorini di un avvicinamento agli esiti della “scuola di Norimberga della seconda metà del XV secolo”, non escludeva comunque la possibilità di riconoscere l’autore in una maestranza ligure, “più difficilmente un italiano di un’altra regione, salvo, forse, un piemontese”. Sulla base delle fondamentali notizie orali tramandate da Padre Cassiano da Langasco, all’incirca nel quinto decennio del novecento la tavola si trovava presso la chiesa genovese dedicata a San Bernardino, per poi essere trasferita negli anni 1956-1957 nel convento della SS. Annunziata di Portoria, dove è tuttora conservata. Sempre secondo quanto tramandato dall’erudito cappuccino, non può essere esclusa la possibilità che il dipinto debba annoverarsi fra i manufatti raccolti tra la fine dell’Ottocento e l’alba del secolo successivo da Padre Pietro da Voltaggio nella chiesa di Santa Caterina di Genova e provenienti da complessi religiosi dell’ordine francescano chiusi al culto a seguito delle soppressioni del 1866.

Appartenente con probabilità a una più complessa macchina d’altare all’interno della quale doveva dialogare con un analogo riquadro raffigurante l’Angelo annunciante andato disperso, la tavola è stata oggetto in tempi recenti di un’attenta disamina critica. Da tali studi è scaturita la sicura appartenenza dell’opera al catalogo di Gandolfino da Roreto, con particolare riferimento alla produzione della fine dell’ultimo decennio del XV secolo, in stretto rapporto con il polittico, firmato “gandulfinus pinxit” e datato 1493, raffigurante l’Assunzione, santi e l’Incoronazione della Vergine (Torino, Galleria Sabauda) proveniente dalla chiesa di San Francesco ad Alba. Fu Giovanni Romano a riconoscere nella composizione un esempio della raffinata arte del maestro piemontese, proposta che ha trovato ampio respiro e fondamentali conferme negli studi di Simone Baiocco, per il quale la composizione potrebbe addirittura anticipare dal punto di vista cronologico la giovanile ancona pervenuta al museo piemontese per “una più diretta connessione con quella cultura “mediterranea” che è la matrice in grado di spiegare particolari come il drappo che fa da sfondo alla scena, oppure il nimbo della Vergine, rilevato a pastiglia come più consueto nella pittura del versante iberico”. Componenti a cui possono essere sommate per certi aspetti le fragili eleganze di sapore ancora primo quattrocentesco percepibili nella costruzione dell’andamento delle pieghe della veste sottolineate da preziose pennellate ricche di materia lucente, in seguito non così evidenti nel linguaggio figurativo di Gandolfino. Pur considerando l’attuale assenza di notizie certe riguardanti la possibile collocazione antica dell’insieme a cui appartenne questo elemento, forse davvero concepito come “portello apribile” vista la presenza sul retro della rappresentazione dei simboli della Passione ascrivibili senza dubbi alla stessa mano, potrebbe comunque non risultare del tutto errato pensare come proposta di lavoro quantomeno a una provenienza da un convento appartenente allo stesso ordine ubicato nel territorio del Basso Piemonte e in particolare nell’area alessandrina, ambito dove gli esiti dell’artista astigiano trovarono ampi consensi inserendosi tra l’altro all’interno di una fitta rete di intrecci culturali che sin dalla seconda metà del trecento unirono questa zona alle vicende artistiche genovesi. Una realtà quest’ultima non ignota allo stesso Gandolfino, e che anzi contribuì verosimilmente con preponderanza alla creazione della sua raffinata e ricca sigla stilistica. Un legame documentato non in modo superficiale proprio dalla Vergine annunciata del convento dell’Annunziata di Portoria anche attraverso rimandi all’arte di Ludovico Brea, contatti che potrebbero essere scaturiti da una frequentazione da parte del giovane Gandolfino dello stesso ambiente genovese o da un suo soggiorno “in altra parte della regione ligure”; realtà dove, dopo un primo discepolato a contatto con il padre Giovanni, anch’egli pittore, Gandolfino potrebbe aver mosso da solo i primi passi.
 

Orazio De Ferrari "La Vergine Immacolata e i santi Antonio di Padova e Francesco"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Orazio De Ferrari (Voltri, 1606-1657)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 300 x 176 cm

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Il percorso di Orazio De Ferrari è scandito, a partire dai primi anni Quaranta del secolo XVII, da una fitta sequenza di pale d’altare destinate alle chiese dei Cappuccini. Apre la serie il dipinto, firmato e datato 1643, che oggi è conservato nella chiesa dei Santi Nazario e Celso di Arenzano e che propone alla devozione dei fedeli la mite figura dello spagnolo Felice da Cantalice; seguono poi le due tele di Pontedecimo, fra le quali si annovera quella qui presentata (restaurata nel 2009 da Aurelia Costa e Francesca Ventre con fondi statali) e le due pale d’altare inviate in Sardegna per le fondazioni cappuccine di Villasor e di Quartu Sant’Elena. Agli anni della piena maturità appartiene poi uno dei vertici dell’intera produzione di Orazio, e cioè la Comunione della Maddalena, oggi conservata a Sanremo, opera realizzata per Porto Maurizio. Della tela inviata a Pontremoli - appartenente allora alla Provincia di Genova - resta purtroppo solo un frammento della parte superiore. Va inoltre ricordato che nel testamento del pittore, rogato il 14 settembre 1657 mentre il maestro stava per soccombere alla pestilenza, si dispone la restituzione ai Cappuccini di una somma, probabilmente un acconto ricevuto per un’opera destinata a non vedere la luce.

Come si è detto, la tela restaurata proviene dall’altare maggiore della chiesa di Pontedecimo e per alcuni decenni, prima del ricovero a Portoria, è stata dotata di apparato meccanico per utilizzarla nella pia pratica delle “scoperture”; nel corso del restauro la complessa intelaiatura lignea e la fascia perimetrale metallica applicate in quell'occasione sono state rimosse - ma non distrutte - perché la loro permanenza non era più giustificabile. In questa occasione si è potuto verificare che il formato della pala era stato ridotto e che la fascia metallica celava circa 4 cm di tela dipinta su ciascuno dei lati lunghi. La rimozione delle ridipinture, peraltro non molto estese, ha consentito alla rossa veste della Vergine, impreziosita dalle lacche, di riacquistare il brillante tono originale; la pulitura ha reso inoltre nuovamente leggibile il raffinato contrappunto dei grigi di madreperla che caratterizzano le toppe della veste di San Francesco ed anche il dilagare dei raggi dell’aurora consurgens sull’immaginario paesaggio della zona inferiore, costellato di riferimenti - fra gli altri la ianua, la turris, la fons - agli appellativi mariani.

Per quanto riguarda la datazione, si ritiene appropriata una collocazione del dipinto a ridosso del 1650, alcuni anni dopo la conclusione dei lavori di costruzione del complesso conventuale, conclusione che l’anonimo compilatore delle Notizie del Convento di Pontexmo cavate dall’Archivio del medesimo Convento (Genova, Archivio Provinciale dei Cappuccini, ms, post 1815) colloca nel 1645.

Giovanni Battista Casoni "Adorazione dei pastori"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Giovanni Battista Casoni (Lerici, 1610 - Genova, 1686)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 123 x 148 cm

San Luca è l’unico degli evangelisti a specificare che l’annuncio ai pastori della nascita di Gesù avvenne mentre questi “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” (Luca 8,8), mentre si deve a San Giovanni la definizione di Cristo “luce del mondo” (Giovanni 8,12; 9,5) che certamente, al pari della cosiddetta “gran luce che gli occhi non potevano sopportare” così descritta nel Protovangelo di Giacomo (19,2), uniforma e caratterizza non solo il dipinto preso in esame, ma anche illustri precedenti: dalla celeberrima Notte del Correggio alle note sperimentazioni cambiasesche, dalla pala di Fermo di Rubens fino alle successive declinazioni di scuola locale da Domenico Piola al Gaulli.

Grazie al restauro, condotto dal Laboratorio delle Scuole Pie nel 2007, la tela si presenta oggi in buone condizioni e permette di ragionare con una certa serenità sulla sua esecuzione.

Come autore si era inizialmente proposto il nome di Domenico Fiasella che certamente nei suoi anni romani ebbe la possibilità di apprezzare molte opere “a lume di notte” realizzate da artisti d’oltralpe presenti a Roma negli stessi anni, come Van Baburen, Van Honthorst, Terbrugghen, compresa la pala destinata a Fermo a cui Rubens lavorava nella primavera del 1608. In particolare questo contatto sembra dimostrato da un piccolo dipinto, reso noto da Piero Boccardo e Anna Orlando, dove al di là del soggetto iconografico la vera protagonista è proprio l’atmosfera notturna e dove è possibile scovare un pastore “nella posizione semigenuflessa di ascendenza cambiasesca, ma aggiornata sulla corrispondente figura rubensiana da cui sono ripresi, ribaltandoli, anche lo sguardo e il gesto del fanciullo che gli è accanto”. E così nello stesso modo anche nell’opera in esame, molto simile per impaginazione al piccolo dipinto di collezione privata, è possibile rintracciare simili echi figurativi: si noti la figura sulla destra intenta a indicare, mentre a sinistra si riconosce san Giuseppe che si appoggia al bastone e al centro la luce di Cristo Salvatore venuto al mondo, contemplato dalla Vergine che, nell’opera qui esposta, non solleva raffaellescamente il velo, ma cinge amorevolmente la culla di paglia in cui il Bambino è adagiato.

Nonostante questa ragionevole proposta attributiva, pare appropriato non tralasciare il possibile ruolo giocato da Giovanni Battista Casoni, il più abile e fedele collaboratore di Fiasella, in virtù di una pennellata visibilmente più mossa e sfrangiata se paragonata alle consuete soluzioni del Sarzana, di lumeggiature epidermiche particolarmente efficaci e capaci di modellare dolcemente le forme, di un segno scavato utile a segnare le espressioni dei pastori e di una tipica incertezza volumetrica con cui di frequente il Casoni descrive le sue figure. Anche le qualità fisiognomiche del volto della Vergine Maria appaiono distanti dai noti e sodi prototipi fiaselleschi e semmai più prossime ad alcune tele attribuite ormai con certezza al discepolo.

Quando l’opera venne donata nel 2002 ai Frati Cappuccini era registrata come copia da Van Honthorst, senza alcun riferimento alla scuola locale che invece pare, senza dubbio, il contenitore più giusto a cui far riferimento. Una cronologia esecutiva tra quinto e sesto decennio del XVII secolo sembra inoltre avvalorare la possibilità di trovarsi dinnanzi a un’opera del Casoni, memore dei modi fiaselleschi declinati però con una certa autonomia di forme e resa pittorica.

 

 

Anonimo scultore dei Paesi Bassi Meridionali "Svenimento della Vergine"

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Anonimo scultore dei Paesi Bassi Meridionali (XV secolo)

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Legno di quercia scolpito, dipinto e dorato, 62 x 70 x 23 cm


Secondo le notizie riportate oralmente da padre Cassiano da Langasco, il gruppo scultoreo pervenne nel convento dei Cappuccini di Portoria dalla chiesa agostiniana di Santa Maria in Passione di Genova, collocazione dove l’opera potrebbe essere però giunta solo nel XIX secolo quando in questo edificio trovarono sede le monache canonichesse lateranensi. La mancanza di informazioni circa l’antica provenienza del manufatto rende particolarmente difficile la ricostruzione delle sue vicende antiche, nonché l’identificazione del probabile committente. È quindi per ora impossibile comprendere in che periodo lo Svenimento della Vergine giunse a Genova e per quali motivi, se ancora inserito all’interno di un retablo di grandi dimensioni raffigurante la Crocifissione acquistato da un mecenate della Superba per ornare un altare di un edificio ecclesiastico cittadino, secondo modalità simili al dossale fiammingo conservato nella chiesa di Santa Margherita di Testana, oppure se già diviso dagli altri blocchi lignei che costituivano, assemblati, un polittico smembrato, e pertanto forse destinato anche a una devozione a carattere privato.

Ritenuto in passato un elemento “proveniente da una deposizione gotica. Secolo XVI”, più recentemente lo Svenimento è stato oggetto di un’attenta analisi stilistica da parte di Laura Lagomarsino, la quale ha proposto un convincente accostamento alla produzione dell’ambito bruxellese degli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento, evidenziando in particolare stretti legami linguistici con il retablo delle Scene della Passione (Bruxelles, Museés Royaux d’Art et d’Histoire), eseguito verso il 1479 per il piemontese Claudio Villa e la consorte Gentilina Solaro. Gli importanti dati tecnici emersi grazie all’intervento di restauro realizzato nel 2004, a seguito del quale è stato possibile liberare la superficie del manufatto da pesanti e fuorvianti ridipinture, consentono di confermare l’attribuzione dell’opera a un artista attivo a Bruxelles verso la fine del Quattrocento, forse a ridosso della conclusione del secolo, come sembrano dimostrare alcuni caratteri stilistici. Nel dettaglio il riferimento è alla resa delicata degli incarnati e degli incisivi tratti somatici, agli atteggiamenti volutamente posati, pur nella loro drammaticità, dei personaggi, alla disposizione delle pieghe che solcano le vesti e alle complesse acconciature femminili nonché alle ciocche del capo del giovane evangelista, caratteri che evidenziano invero uno stretto rapporto proprio con la statuaria bruxellese degli anni finali del XV secolo. La stessa preziosa policromia, arricchita in alcuni punti, come in corrispondenza del manto di san Giovanni, da raffinate dorature e, nella veste della donna collocata in primo piano a destra, dall’elaborata tecnica del pressbrokat, suggerisce una possibile provenienza del gruppo da una delle migliori botteghe operanti nella cittadina fiamminga nel corso degli ultimi decenni del Quattrocento.

La scultura, concepita dunque per essere collocata al centro di un retablo, è stata realizzata utilizzando un unico blocco di rovere, non scolpito nel retro, sul quale non sono stati individuati i contrassegni di garanzia del legno.
 

 

 

Bernardo e Francesco Maria Schiaffino "Ratto di Proserpina"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Bernardo e Francesco Maria Schiaffino

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Marmo bianco di Carrara, 220 x 100 cm

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La scultura è evidentemente ispirata al gruppo di Plutone e Proserpina, scolpito da Gian Lorenzo Bernini tra il 1621 e il 1622 per il cardinal Scipione Borghese, e tuttora esposto nella sua villa romana e vertice indiscusso di tutta la plastica barocca. Di essa costituisce una naturale evoluzione in direzione tardo-barocca. Come nel prototipo romano, Plutone dio degli Inferi rapisce la figlia di Cerere, mentre le tre teste di Cerbero latrano  all’entrata dell’Averno. Le due figure divine si elevano sopra lo scoglio sfaccettato tipico della scultura genovese da Filippo Parodi in poi, dal quale qui fiammeggiano lingue di fuoco e serti di quercia.

Circa l’attribuzione nuovi ritrovamenti d’archivio hanno reso possibile anticipare la datazione tradizionalmente attribuita alla scultura dal 1724-1725 al 1705 circa. Questo fatto modifica di conseguenza anche la paternità esecutiva da Francesco Maria Schiaffino, rientrato da Roma nel 1724, al fratello maggiore Bernardo, a cui va riferita l’ideazione, anche nel caso l’esecuzione possa essere condivisa dai due fratelli scultori. Bernardo nel 1705 aveva sia lo status sia le capacità tecniche per l’esecuzione di un pezzo così importante, mentre il più giovane, che all’epoca aveva 17 anni, può averlo assistito come aiuto.

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