Visitare i carcerati

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Cornelis de Wael (Anversa, 1592-1653)

Tecnica e misure:

Olio su tela, cm. 99 x 152

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La tela fa parte di una serie che l’autore dipinse fra il 1640 e il 1647 per Pier Francesco Grimaldi, in cui ciascun quadro doveva rappresentare una delle sette "opere di misericordia corporale".
Ancora una ambientazione genovese si riconosce nella tela dedicata a Visitare i carcerati. Si tratta del Palazzetto Criminale, antico carcere di Genova. In questo dipinto, più ancora che nell’altro, De Wael si sofferma e indugia nella descrizione vivace e incisiva dei singoli personaggi e delle varie pene che i malcapitati dovevano subire, fornendo anche una significativa testimonianza delle abitudini del tempo.
 

Visitare gli infermi

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Cornelis de Wael (Anversa, 1592-1653)

Tecnica e misure:

Olio su tela, cm. 99 x 152

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Cornelis De Wael, insieme al fratello Lucas, si stabilì a Genova dal 1619, prendendo in locazione un alloggio che ben presto divenne, secondo una tradizione già consolidata nelle Fiandre, una casa-bottega, dove i pittori fiamminghi che approdavano in città potevano trovare accoglienza e il necessario per iniziare a lavorare con tranquillità. In questa sede si organizzava, inoltre, il lavoro in base alle committenze e alle attitudini dei vari pittori, diversificando i generi, così da far fronte alle più varie richieste dei signori genovesi: battaglie e marine, nature morte di fiori, frutta e animali, scene di genere erano i soggetti più praticati e di successo. Cornelis, oltre che per questa importante operazione culturale che riunì fra l’altro artisti della statura di Jan Roos e Van Dyck, fu apprezzato per un genere pittorico, come riferisce il Soprani, in cui trasponeva “il suo genio di fare figure piccole”, articolate a gruppi e caratterizzate da una magistrale cura per i dettagli dell’abbigliamento e delle fisionomie. In particolare, le tele conservate a Palazzo Bianco che illustrano due delle sette opere di misericordia, gli furono commissionate intorno al 1640 da un grande nobile genovese, Pier Francesco Grimaldi, mecenate e convinto estimatore del maestro. Giunte per via ereditaria a Ignazio Pallavicini, furono poi vendute dai suoi discendenti e acquistate sul mercato antiquario per Palazzo Bianco nel 1948. Esse fanno parte di una serie andata perduta, fatta eccezione per Alloggiare i pellegrini, in collezione privata, delle Sette Opere di Misericordia, soggetto in cui Cornelis si cimentò varie volte.
L’episodio è ambientato nell’atrio dell’ospedale di Pammattone di Genova (oggi inglobato nell’attuale Palazzo di Giustizia), una delle maggiori istituzioni assistenziali genovesi, finanziata da elargizioni degli aristocratici cittadini, le cui effigie sono immortalate nelle maestose statue collocate entro nicchie. La scena raffigurata nel dipinto riguarda la consuetudine dei nobili e diplomatici di allora di recarsi in questo ospedale ogni lunedì santo, per il “perdon grande”, la cerimonia per ottenere l’indulgenza plenaria. Il pretesto religioso era l’occasione di ribadire, con la sollecitudine dell’elemosina e con la presenza fisica, il proprio eminente ruolo sociale. Non a caso, fra il cancelliere e il rettore dell’Ospedale, in primo piano, con un elegante vestito nero su cui spicca il vasto colletto di pizzo bianco, è seduto il committente del dipinto: Pier Francesco Grimaldi.
 

Ritratto di dama genovese

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Guilliam Van Deynen (Anversa, 1575 - Bruxelles, post 1624)

Tecnica e misure:

Olio su tela, cm. 204 x 120

La vendemmia di Sileno

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Titolo dell'opera:

La vendemmia di Sileno

Acquisizione:

M. L. Ottazzi 1985 - acquisto

Autore:

Roos, Jan

Tipologia:

dipinto

Epoca:

1616 - 1638 - XVII

Inventario:

PB 2779

Misure:

Unità di misura: cm; Altezza: 160; Larghezza: 207

Tecnica:

olio su tela

Ultimi prestiti:

PRACHT UND PATHOS - Berlino - 2003-2004

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Descrizione:

Il soggetto è stata riconosciuto nel quadro di "palmi 9 e 6 con Bacco Satiri una Tigre e frutti, elemento della Terra", menzionato nell'inventario del 1666 del medico Francesco Maria Ruffo, esponente del ramo calabrese dei principi di Scilla. Fu probabilmente grazie ai numerosi interessi e contatti intrattenuti dai Ruffo con i mercanti-banchieri genovesi, e principlamente con i Cicala, che una diramazione della casata si stabilì a Genova, benché sia rimasta per molto tempo sconosciuta agli studiosi. Nella collezione di Francesco Maria si trovavano, tra gli altri, ben 38 dipinti di Jan Roos, mostrando una vera predilezione per le nature morte e i soggetti di genere. (PRIARONE 2009, pp. 703-717) La tela, raffigurante il dio Bacco mentre esce da un tino da vendemmia carico di grappoli d'uva, circondato dal tipico corteo animalesco e da una natura esuberante.

Mercato

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Giacomo Legi (Liegi, 1600 circa - Milano, 1640 circa)

Tecnica e misure:

Olio su tela, cm. 150 x 186

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Natura morta di frutta, ortaggi e fiori (secondo quarto del XVII secolo)

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Jan Roos (Anversa, 1591 - Genova, 1638)

Tecnica e misure:

Olio su tela, cm. 100 x 138

Formatosi ad Anversa, è documentato nella bottega di Jan de Wael, padre dei pittori Lucas e Cornelis, e, successivamente, in quella di Frans Snyders in cui si specializza nella raffigurazione di nature morte. Giunto in Italia nel 1614, si reca prima a Roma e, nel 1616, a Genova, dove si stabilisce definitivamente fino alla sua morte, aprendo una bottega attivissima e di grande successo. Nonostante la sua produzione annoveri sia soggetti biblici, allegorici e mitologici sia vigorosi ritratti in cui è evidente la suggestione vandychiana, la notorietà nell’ambito della cultura artistica locale è legata alla sua specializzazione nell’eseguire nature morte, come peraltro già riportato dalle fonti a lui coeve: “[…] si mostrò oltremodo eccellente in gareggiar con la natura nell’espressione de’ frutti, fiori & animali” (Soprani 1674). In questa opera, difatti, protagonista assoluta della composizione è un vero e proprio “trionfo” di fiori e di frutti – uva, arance, castagne, fichi, melagrane, bulbi di papavero, cocomero, zucche e mandorle – ritratti all’interno di una ambientazione connotata aulicamente dalla presenza, sullo sfondo, da una base di colonna e da un drappo rosso. La naturalezza del soggetto e il virtuosismo pittorico con cui Roos restituisce tattilmente i diversi elementi della composizione sono conseguenza della pratica di bottega di studio ed elaborazione dei soggetti in repertori (carnets, modelli, schizzi) che rendono riconoscibili questi brani di natura morta in altri dipinti, sia dello stesso pittore, come nel caso della Vendemmia di Sileno di Palazzo Bianco, sia di altri artisti, primo fra tutti Van Dyck, con cui collabora negli anni del suo soggiorno genovese.

Vertumno e Pomona

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Titolo dell'opera:

Vertumno e Pomona

Acquisizione:

Marchese Ambrogio Doria in memoria del fratello Gu 1959 Genova - legato

Autore:

Van Dyck, Antoon

Tipologia:

dipinto

Epoca:

1601 - 1650 - sec. XVII

Inventario:

PB 2588

Misure:

Unità di misura: cm; Altezza: 142; Larghezza: 197,5

Tecnica:

olio su tela

Ultimi prestiti:

Mostra della pittura del Seicento e del Settecento in Liguria - Genova - 1947
Cento opere di Van Dyck - Genova - 1955
Anthony Van Dyck - Washington - 1990
Van Dyck a Genova grande pittura e collezionismo - Genova - 1997

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Descrizione:

Entrato nelle raccolte civiche di Genova nel 1959 per effetto del legato del marchese Ambrogio Doria, il dipinto è attestato nella collezione della casata già a partire dalla seconda metà degli anni Trenta del XVIII secolo, anni cui dovrebbe credibilmente riferirsi un documento manoscritto dell’Archivio Storico del Comune di Genova che, elencando quattrocento dipinti di assoluto pregio presenti in quel momento in città, divisi per autori e con l’indicazione dei singoli proprietari d’allora, menziona per l'appunto tra le opere di “Antonio Vandich” una “Favola di Pomona da Giorgio Doria [1663-1746]” (Ristretto di differenti quadri... in Migliorini 1997-1999, p. 218, nota 120 p. 228; Boccardo 2002, pp. 232-236; sulla collezione Doria da ultimo Marengo, Orlando 2018). Per quel che riguarda la sua provenienza precedente, invece, è giustamente accreditata la proposta di Boccardo di riconoscerla nella tela di ugual soggetto menzionata negli inventari della ricchissima collezione di Gaspar de Haro y Guzmán, settimo marchese del Carpio, stesi a Madrid nel 1689, dove l’opera appare descritta in termini tali da lasciare pochi dubbi sulla sua identificazione (Bulke, Cherry 1997, I, p. 837 n. 125; Boccardo 2002, p. 239 nota 46) per quanto vi sia una discrepanza di misure, che risulterebbero maggiori. Dai dati disponibili sulla raccolta del marchese del Carpio la critica ha supposto che le indicazioni del suo inventario tenessero in conto anche le cornici, ma si ritiene comunque che il quadro abbia nel tempo subito una decurtazione, in particolare nel senso della larghezza (Boccardo 2002, p. 232 e nota 50; P. Boccardo, A. Orlando 2018), ipotesi che la stessa osservazione dell’opera pare suggerire. Il pittore vi rappresenta l’episodio, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (XIV, 610-697), della splendida ninfa Pomona, dedita solo alla cura del suo giardino e avversa a ogni pretendente, che si lascia ingannare e incantare da Vertumno, il dio che, governando il succedersi delle stagioni, aveva il potere di cambiare aspetto: tramutato in una vecchia dal carattere gentile, riesce infatti ad avvicinarsi alla ninfa e a parlarle d’amore, per poi riprendere le proprie sembianze e, complice Cupido, conquistarne le grazie. Il dipinto raffigura dunque un’anomala scena di seduzione, in cui Van Dyck riesce però a profondere la dolcezza del risveglio amoroso, espressa dal corpo morbido di Pomona e dai gesti sensuali dei due. Citata dalle fonti come “tema mitologico di Wandik” (Alizeri 1875, II, p. 447) e interpretata come Giove e Cerere a partire da Suida (1906, p. 166), la tela è riconosciuta correttamente nella sua iconografia da Vey (1962). L’influsso veneto, evidente nella scelta delle tinte - il rosso del manto di Pomona -, nella luminosità che modella i corpi attraverso graduali e sottili cambiamenti di tono negli incarnati, oltre che nella chiara ripresa di composizioni note di Tiziano, come le varie versioni della Danae che Van Dyck certamente aveva ammirato nelle redazioni per i Farnese e per Gio. Carlo Doria, è sottolineato dalla critica già a partire da Millar (1955) e Lee (1963), fino agli studi più recenti di Barnes (1990, cat. 39; 1997, cat. 65) e di Boccardo e Orlando (2018, cat. I.8). D’altra parte non pare impropria la vicinanza rilevata già da Morassi nel 1947 (Mostra della pittura, cat. 24) tra la figura di Vertumno e quella del venditore ammantano e di profilo posta in primo piano nella Presentazione della Vergine al Tempio di Tiziano alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ed è utile a questo proposito il richiamo fatto da Boccardo e Orlando alla presenza di numerose prove del cadorino, tra originali e copie, nella casa anversana di Van Dyck, anche dopo il suo rientro in patria (2018, cat. I.8). La suggestione dal pittore veneto proseguì dunque nel tempo e proprio Boccardo e Orlando, confortati da questo dato, posticipano ormai con convinzione la datazione dell’opera - collocata precedentemente dalla critica al periodo genovese di Van Dyck a motivo della presenza del quadro già in antico in città (cfr. ancora in Barnes 2004, cat. II.22) - a dopo il ritorno in patria del maestro, trovando in particolare somiglianze con tele di ricordo veneto dei primi anni ‘30 (già Boccardo 2002, p. 236), come il Rinaldo e Armida di Baltimora - in cui il puttino sulla destra è molto vicino al Cupido del Vertumno e Pomona - e l’Amarilli e Mirtillo dell’École nationale supériore des beaux-arts di Parigi, in cui peraltro la figura femminile in primo piano porta lo stesso bracciale di Pomona. Acquista a questo punto particolare significato l’intuizione di Orlando che già nel 1996 aveva messo in dubbio per ragioni stilistiche la possibilità di riconoscere in Jan Roos, collaboratore di Van Dyck a Genova e specialista in nature morte, l’autore dei bei frutti in primo piano (Orlando 1996, nota 61). Priarone M. in "Van Dyck pittore di corte" Torino 2018 p. 230. Il dipinto rappresenta la ninfa Pomona intenta a parlare con il dio Vertumno trasformato in anziana. Alla loro sinistra, di spalle, è visibile Cupido con arco e frecce.

Venere e Marte (1632-1635)

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Titolo dell'opera:

Già Venere e Marte / allegoria dell'intemperanza

Acquisizione:

Brignole-Sale De Ferrari Maria 1889 Genova - legato

Autore:

Rubens, Pieter Paul

Tipologia:

dipinto

Epoca:

1632 - 1635 - sec. XVII

Inventario:

PB 160

Misure:

Unità di misura: cm; Altezza: 133; Larghezza: 142

Tecnica:

olio su tavole di rovere

Ultimi prestiti:

Mostra d'Arte Antica - Genova - 1982
Pieter Paul Rubens. Kritischer Katalog der Zeichnungen - Berlino - 1990
Rubens - Lille - 2003

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Descrizione:

Capolavoro della tarda maturità dell’artista fiammingo, databile tra il 1632 e il 1635, la tavola è menzionata per la prima volta a Genova nel 1735 circa, quando risultava appartenere a Gio. Francesco II Brignole - Sale nel Palazzo Rosso; secondo una recente indagine, il dipinto sarebbe tuttavia giunto in città da Madrid circa una trentina d’anni prima, forse per tramite del genovese Francesco de Mari. Il dipinto si presenta in forma di allegoria, nella quale sono state tradizionalmente riconosciute le figure di Marte, dio della guerra, disarmato da Amore, e di Venere, il cui fascino procace attira e soggioga il dio, unitamente all’ebbrezza provocata dal vino offerto in una coppa da Bacco, il dio della gioia di vivere. Venere indossa abiti coevi, ma il suo volto e la sua tornita fisionomia rispecchiano canoni di bellezza comuni nella produzione rubensiana, che non si possono riferire ai tratti somatici della seconda moglie del pittore, come invece affermavano gli inventari settecenteschi di casa Brignole-Sale. La figura di Marte, del resto, indossa il tipico abbigliamento del lanzichenecco e non si può considerare un autoritratto dell’artista: al contrario, sembra riprodurre il volto, identico fin nell’espressione, di un membro della famiglia Van den Wijngaerd, che Rubens ritrasse almeno altre due volte. La Furia che irrompe, a destra, dalle ombre di un paesaggio che si rivela desolato, arso e sconvolto dalla guerra, è stata realizzata con vibranti tocchi essenziali di bruno e nero direttamente sulla preparazione bruno-rossastra e si contrappone all'intensità cromatica e all’intatta luminosità degli impasti delle figure in primo piano, di ascendenza tizianesca. Di recente, il soggetto è stato interpretato come una più complessa Allegoria dell'Intemperanza, rifiutando l’identificazione tradizionale dei due protagonisti come il dio della Guerra e la dea dell’Amore (N. Büttner, Corpus Rubenianum, 2018). Il dipinto rappresenta la figura di Venere, dela dell'amore, al centro mentre disarma Marte, dio della guerra. Quest'ultimo viene stordito dal vino offerto in una coppa da Bacco, il dio della gioia di vivere.

La cuoca (1559)

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Titolo dell'opera:

La cuoca

Acquisizione:

Banca Popolare 1899 Genova - acquisto

Autore:

Aertsen, Pieter

Tipologia:

dipinto

Epoca:

1559 - 1559 - sec. XVI

Inventario:

PB 181

Misure:

Unità di misura: cm; Altezza: 171; Larghezza: 85

Tecnica:

olio su tavola di rovere

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Descrizione:

Il dipinto è stato identificato con la "cucina antica per mettere tra balconi di Pietro Long" menzionata nell'inventario dei beni pertinenti all'eredità di Gio. Agostino Balbi, morto nel 1621, dato che Pietro Long è il soprannome con cui era conosciuto Pieter Aertsen, e la specifica indicazione del posizionamento del dipinto all'interno della collezione ("per mettere tra balconi") si adatta bene al formato allungato dell'opera. Nella stessa raccolta, messa insieme da Balbi ad Anversa tra il 1595 e il 1617, e arrivata a Genova a ridosso della seconda data, tra tante altre opere fiamminghe si trovava anche la "Scena di mercato", sempre di Aertsen, oggi a Budapest. Al Gabinetto Disegni e Stampe di Palazzo Rosso è conservato un disegno, acquistato nel 1965 da una collezione inglese, che riproduce fedelmente la composizione del dipinto. Tuttavia, il confronto con altri disegni noti del pittore esclude un'esecuzione autografa. La presenza, sul retro del foglio, di indicazioni scritte in olandese e relative alle campiture di colore della tavola induce a ritenerlo opera di un esponente della bottega di Aertsen, forse di uno dei figli o dei nipoti che ne portarono avanti l'attività dopo la morte del capobottega e ben oltre la fine del Cinquecento. (Boccardo 2006, p. 36) Il dipinto rappresenta un ritratto di cuoca a figura intera e stante.

Trittico dell’adorazione dei Magi

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Titolo dell'opera:

Trittico dell'Adorazione dei Magi

Autore:

Van Aelst, Pieter Coecke

Tipologia:

trittico

Epoca:

1545 - 1550 - XVI

Inventario:

PB 177

Misure:

Unità di misura: cm; Altezza: 92; Larghezza: 59; Varie: Tavola centrale; Unità di misura: cm; Altezza: 92; Larghezza: 25; Varie: Tavole laterali

Tecnica:

olio su tavola di rovere

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Descrizione:

Il trittico fa parte di quel gruppo di dipinti pervenuti alle collezioni Civiche dopo essere stati requisiti da monasteri e chiese soppressi durante il periodo napoleonico. Secondo l'Alizeri infatti è possibile che provenga dall'Abbazia della Cervara insieme al polittico omonimo di Gerard David (Alizeri 1846). In seguito venne affidato temporaneamente dalla Repubblica Democratica a Giuseppe Fravega per arredare la sua dimora e che, nel 1805 il governo francese aveva richiesto in restituzione. Fravega alloggiava al piano nobile di Palazzo Bianco come affittuario della famiglia Brignole – Sale (Di Fabio 1997). Il trittico venne in seguito spostato nel gabinetto dei Sindaci a Palazzo Ducale e poi a Palazzo Tursi nel 1869. Dal 1892 è collocato definitivamente a Palazzo Bianco. L’opera è composta da tre pannelli nei quali sono raffigurate, a partire da sinistra, le vicende bibliche dell'Annunciazione, dell'Adorazione dei magi e della fuga in Egitto. La prima scena sembra svolgersi all' interno di una chiesa gotica dove i raggi che filtrano dal rosone illuminano la testa dell'arcangelo. Quest’ultimo impugna un bastone d’oro, dal quale si srotola un cartiglio che reca le parole della salutazione angelica “AVE MARIA, GRAZIE PLENA DOMINUS…TECUM BENEDICTA TU…”. Nel pannello centrale è raffigurata la Madonna con il Bambino appoggiato al grembo, che intinge le dita in una coppa d’oro offertagli da uno dei magi mentre gli altri due attendono pazientemente di mostrare i loro doni. Inginocchiato a sinistra della Vergine si trova san Giuseppe con il viso reclinato che si appoggia alla mano destra. Sullo sfondo lo spazio è scandito da un’architettura dal gusto rinascimentale in rovina accompagnato da piccole figure secondarie. Nel pannello centrale un piccolo gruppo di cavalieri si dirige verso la pianura mentre nel riposo durante la fuga in Egitto si può riconoscere la strage degli innocenti. L’iconografia dell’Adorazione dei magi è un tema popolare dell’ambito anversano già a partire dal secolo precedente e che in quegli anni (1510-1530) ebbe un notevole impulso grazie al culto della vergine (Boccardo; Di Fabio 1997) Il trittico rappresenta al centro l'adorazione dei Magi, a destra la fuga in Egitto, a sinitra l'annunciazione.

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