MEMORIA E MIGRAZIONI

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

SEZIONE MEM – Memoria e migrazioni

Tipologia:

Ambiente

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Il terzo piano del Galata Museo del Mare è quasi interamente dedicato alle migrazioni con il padiglione MeM Memoria e Migrazioni. L’allestimento ricostruisce il percorso migratorio vissuto da 29 milioni di italiani tra la fine dell’800 e i primi decenni del ’900, accompagnando il visitatore nella storia attraverso ricostruzioni, testimonianze e oltre quaranta postazioni multimediali, molte delle quali interattive. La sezione è stata inaugurata in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia.

Sito dedicato: www.memoriaemigrazioni.it

Galea

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Ricostruzione di una galea del 1622

Tipologia:

Ambiente

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Il piano terra del Museo ospita la ricostruzione in scala 1:1 di una galea risalente al 1622. Lo scopo delle Arcate Nuove ancora visibili nell’edificio (poi denominate Quartiere Galata) era quello di armare galee o tirare in secco quelle che necessitavano di riparazioni. Attraverso la scaletta di accesso alla Galea è possibile salire a bordo. Il visitatore, nei panni di un membro della ciurma, viene chiamato da uno dei maestri d’ascia a chiarire la sua identità – schiavo, forzato o buonavoglia? – ed è libero di esplorare l’interno, angusto e pieno di materiali.

 

Filippo Parodi "Le Metamorfosi"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Filippo Parodi (Genova, 1630–1702)

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Marmo bianco di Carrara e dorature, 102 x 68 x 55 cm

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Questa meravigliosa scultura raffigurante Adone, appartiene alla celebre serie delle Metamorfosi (Adone, Clizia, Venere e Giacinto) che dal Settecento decora la Galleria degli Specchi. Filippo Parodi, il maggiore scultore genovese del Seicento, dopo aver assimilato a Roma la lezione di Gian Lorenzo Bernini, tradusse nel marmo con grande virtuosismo e sensibilità poetica alcuni dei miti tratti dalle Metamorfosi di Ovidio. In questo caso, la serie narra di giovani e ninfe trasformati dagli dei in elementi naturali come accade ad Adone mutato da Venere in un anemone e a Clizia trasfigurata in girasole da Apollo.

Giovanni Battista Gaulli, Autoritratto

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Giovanni Battista Gaulli, detto "il Baciccio" (Genova, 1639 - Roma, 1709)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela

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Si tratta di uno dei quadri più importanti delle collezioni del Palazzo Reale di Genova, sebbene non ancora apprezzato dal pubblico per la sua collocazione storica, e pertanto mantenuta, in un'area non ancora aperta alla libera fruizione, ma attualmente oggetto di lavori di ripristino che consentiranno di inserire anche queste stanze all'interno del percorso museale.

È considerato uno degli autoritratti noti di questo protagonista del barocco, non a caso definito dalla critica “il Bernini in pittura”. Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccio, genovese di nascita, ma romano d’adozione, aveva infatti collaborato in più occasioni con il celebre scultore proprio nella Capitale. Più ancora di altri suoi autoritratti, questo denota una viva immediatezza dell’immagine, grazie all’inquadratura, alla posa, ma anche alla leggerezza di stesura.

Il dipinto è documentato per la prima volta in un contratto d’acquisto di 31 quadri e 6 sculture da parte di Gerolamo Ignazio Durazzo (1676-1747), allora proprietario del palazzo, dal pittore Domenico Parodi. È di estremo interesse dunque poter attestare la precedente proprietà dell’Autoritratto presso un pittore genovese, alla cui morte, alla fine del novembre del 1742, fu messo in vendita.

Insieme a questa tela il Parodi aveva conservato in casa propria non solo 22 sue tele, ma anche copie da Bassano, Tiziano, Veronese e Guido Reni, quattro paesaggi di scuola fiamminga, due tele attribuite a Domenico Piola, una a Domenico Fiasella e una, appunto, il Ritratto di Gio. Batta Gaulli fatto da lui proprio di palmi 3.

Dopo l’acquisto da parte del marchese Durazzo alcune di queste opere furono collocate in uno degli ambienti più preziosi del primo piano nobile del Palazzo Reale di Genova, il Salotto degli Stucchi Verdi, con i necessari adattamenti di formato: in questo caso un ingrandimento.

Nel tempo, si perdono le tracce dell’identità dell’effigiato e del suo autore: gli inventari sabaudi del XIX secolo lo indicano genericamente come “ritratto” o “ritratto di cavaliere”. Il riconoscimento si deve agli studi di Luca Leoncini ed è storia recente (2001).

Padre Raffaele Migliorini, Paliotto a squame

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Padre Raffaele Migliorini (Genova, 1799-1889)

Tipologia:

Ornamento liturgico

Tecnica e misure:

Paglia dipinta, incollata su carta e riportata su tela, 95 x 170 cm

 

Il centro del paliotto è dominato dallo stemma francescano che campeggia all’interno di una ricca raggiera. La croce è circondata dal motto di San Paolo: “Absit gloriari nisi in cruce” (Non ci sia altro vanto che nella croce), tratto dalla lettera ai Galati. Una cornice profilata da listelli blu è ornata da un festone di fioretti alternati gialli e violetti.

Tutto il rivestimento è di paglia ed è il diverso modo di disporla sul piano (a squame, a spina di pesce, a mosaico) che ottiene gli straordinari effetti cromatici e luministici dati dal verso delle fibre che riflettono la luce in innumerevoli modi differenti.

Il suo stile, così geometricamente rigoroso, è al contempo severo, elegante e aggraziato e rivela una predilezione di stampo razionalistico per il particolare.

Si tratta di un esemplare semplice e sobrio che richiama l’ideale di povertà della vita cappuccina.

L’opera è firmata dall’autore sul verso, sulla faccia alta del telaio: “P.F. Raffaele da Genova 1879”.

 

Lazzaro Calvi, Deposizione

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Lazzaro Calvi (Genova, 1518 circa - 1607 circa)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Tempera su tavola, 300 x 200 cm

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Solo di recente, e grazie al rinvenimento di alcuni nuovi dati sulla vita e l’attività di Lazzaro Calvi, la produzione di pale d’altare dell’artista genovese, ben nota e tutto sommato consistente, ha trovato una valutazione attenta e obiettiva.

La stessa Deposizione di Portoria, che pure costituisce senza dubbio una delle opere migliori di Lazzaro Calvi, non ha mai ricevuto sufficiente considerazione dalla critica. Non le ha giovato innanzitutto il fatto di avere subito, probabilmente già nella seconda metà del Seicento, un drastico cambio di collocazione, cui dovettero seguire rimaneggiamenti e ridipinture, come si evince dalle brevi annotazioni di Soprani, Ratti e Alizeri, il quale descrive l’opera “non altrimenti che posticcia nella cappella per cui s’ascende alla sacristia” e ritocca in parecchi luoghi.

In realtà, l’incarico di provvedere alla decorazione della propria cappella, a destra del presbiterio, conferito ai due fratelli Calvi - Lazzaro e Pantaleo - dalla famiglia Cavanna, rappresentava per Lazzaro, in particolare, un’occasione molto importante e prestigiosa, che gli consentiva di misurarsi con gli artisti più in auge del momento a Genova - Giovanni Battista Castello, Luca Cambiaso, Andrea Semino -, già chiamati, ben prima di lui, a realizzare parte della decorazione della chiesa dell’Ospedale di Pammatone. Lazzaro, probabilmente non ancora sessantenne, si avvalse dunque di ogni strumento culturale a sua disposizione, cercando di mettere a frutto tutta la sapienza pittorica di cui era provvisto e suggellando il proprio impegno con firma e data (“Lazarus Calvi faciebat 1577”), che egli appose sul margine inferiore della tavola, originariamente destinata all’altare maggiore della cappella.

L’impianto compositivo - con le figure della Madre e del Figlio disposte frontalmente, lungo un’unica direttrice verticale dall’alto al basso, e con due delle pie donne che sorreggono da un lato e dall’altro le braccia di Gesù, le cui gambe inerti si piegano lateralmente ad angolo - è mutuato interamente da un’invenzione di Michelangelo degli anni Quaranta, mediata da una delle incisioni che ne vennero tratte, con ogni probabilità da quelle di Giulio Bonasone o di Nicolas Beatrizet.

La raffinata gamma cromatica è tenuta su toni smorzati, bruni e violacei, che se da un lato descrivono con consumato naturalismo l’ora del giorno in cui si svolge l’episodio evangelico trattato - quella del tramonto e dell’approssimarsi della sera -, dall’altro rivelano la scelta di Lazzaro di condividere la ricerca avviata in quegli anni da Luca Cambiaso, in dipinti quali la Pietà di Carignano, di poco precedente.

L’atmosfera di sospesa meditazione e il muto dialogo interiore fra personaggi ritratti e spettatore ben dimostrano la capacità con la quale Lazzaro seppe farsi interprete delle nuove istanze religiose, allora manifestatesi all’interno della Chiesa romana, a seguito della chiusura del lungo dibattito tridentino. Non può essere trascurata, a tale proposito, la presenza dei Gesuiti in quegli stessi anni all’Annunziata di Portoria: essi infatti, insediatisi in città già da qualche tempo, officiarono la chiesa per circa un trentennio, prima di trasferirsi nell’attuale chiesa del Gesù.
 

 

 

Arca delle ceneri di San Giovanni Battista

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Orefici genovesi (?), seconda metà del XII secolo

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Legno, argento e argento dorato in lamina, gemme, 35 x 60 x 32 cm

 

Si tratta della più antica tra le arche conosciute che abbiano conservato le ceneri di San Giovanni Battista. La forma è a capanna: un parallelepipedo coperto a spioventi decorati con motivi vegetali. I rilievi che la compongono raccontano la vita del precursore.
Nella faccia anteriore sono le scene del martirio: Erodiade istiga Salomè, Erode assiste alla danza di Salomè, il servo porta la testa del Battista, il carnefice sta per attuare la decollazione. Il lato anteriore e i due lati corti sono decorati con pietre preziose, di forma rettangolare e ovale, tagliate a cabochon. Secondo una tradizione tardo-seicentesca l'arca sarebbe un'offerta devozionale dell'imperatore Federico Barbarossa.

Cassa processionale Corpus Domini ph Alessi_

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Argentieri attivi a Genova, metà secolo XVI - inizi secolo XVII

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Argento sbalzato e fuso, 133 x 132,5 x 81 cm

 

L'arca venne realizzata per portare in processione, lungo le vie cittadine, un’ostia consacrata il giorno della festa del Corpus Domini. La commissione spettò alla magistratura dei Padri del Comune nel 1553, ma il lavoro, che coinvolse argentieri genovesi, fiamminghi, tedeschi e lombardi, e comportò anche cambiamenti del progetto, venne portato a termine solo nel 1612.
Alla base sono teste di angeli, nella parte centrale rilievi con le Storie della Passione, dall'Ultima Cena alla Sepoltura di Cristo, alternate dalle figure degli Apostoli. Sul coperchio, seduti su troni, i profeti, e angeli con candelieri e simboli della passione. Sull'ultimo gradino le quattro Sibille, due per parte, in posizione speculare, e a coronare il tutto un ostensorio in forma di ciborio.

Stipo delle ceneri di San Giovanni Battista

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Manifattura fiorentina, fine XVI secolo

Tipologia:

Manufatto di oreficeria

Tecnica e misure:

Cristallo di rocca, argento dorato, oro, pietre dure, granati, perle, smalti, 43 x 61 x 44 cm


Lo stipo, o cassetta, è in argento dorato, decorato da perle e smalti; i piedini, in forma di mostri alati, sono in cristallo di rocca; il piano interno è in commesso di pietre dure. Realizzato nell’ambito delle manifatture granducali fiorentine non per una destinazione sacra – era più credibilmente un portagioielli - lo stipo alla metà del XVII secolo apparteneva al genovese Giovanni Pinceti.
La Protettoria della Cappella di San Giovanni Battista lo acquistò nel 1665 dalle eredi di Pinceti, per quasi quattordici mila lire del tempo, per poi destinarlo all’ostensione delle ceneri del Battista.

Reliquiario del braccio di Sant'Anna

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Orefice bizantino, XIV secolo

Tipologia:

Reliquiario

Tecnica e misure:

Argento dorato, gemme e pietre dure, 45 x 13 x 6 cm

 

Il reliquiario, caratterizzato lungo il fusto da una fitta decorazione detta a repoussè, fu probabilmente fatto realizzare al tempo delle nozze dell’imperatore di Bisanzio Andronico III Paleologo con Giovanna di Savoia (che allora adottò proprio il nome di Anna). Finì di lì a poco nella chiesa della colonia genovese che dal 1273 si era installata nel sobborgo costantinopolitano di Pera.
Nel 1461, dopo la conquista turca della città, i genovesi lo trasportarono in patria ove venne destinato al convento francescano di Nostra Signora del Monte, ove rimase fino al 1810 quando, in seguito alle soppressioni, entrò in possesso della Cattedrale.

 

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