Gandolfino da Roreto, Madonna annunciata

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Gandolfino da Roreto

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Tecnica mista (recto) e tempera (verso) su tavola, 109 x 82 cm

 

Questa preziosa testimonianza figurativa, decurtata in corrispondenza di tutti e quattro i lati, venne contemporaneamente sottoposta all’attenzione della critica nel 1980 da parte di Maurizia Migliorini e Anna De Floriani. Quest’ultima studiosa, pubblicando gli esiti dell’importante intervento di restauro che contribuì al ripristino della piena leggibilità dell’immagine, raggiunta mediante la rimozione di fuorvianti grossolane ridipinture, ne suggerì, anche in considerazione dell’impiego della quercia quale essenza, un ipotetico accostamento al pennello di un anonimo pittore formatosi in ambito francese e attivo nei decenni immediatamente successivi alla metà del Quattrocento “a conoscenza dei fenomeni prodottisi soprattutto nella Francia meridionale”, come poi ribadito anche da Laura Martini. Una valida indicazione che, correggendo la contemporanea proposta della Migliorini di un avvicinamento agli esiti della “scuola di Norimberga della seconda metà del XV secolo”, non escludeva comunque la possibilità di riconoscere l’autore in una maestranza ligure, “più difficilmente un italiano di un’altra regione, salvo, forse, un piemontese”. Sulla base delle fondamentali notizie orali tramandate da Padre Cassiano da Langasco, all’incirca nel quinto decennio del novecento la tavola si trovava presso la chiesa genovese dedicata a San Bernardino, per poi essere trasferita negli anni 1956-1957 nel convento della SS. Annunziata di Portoria, dove è tuttora conservata. Sempre secondo quanto tramandato dall’erudito cappuccino, non può essere esclusa la possibilità che il dipinto debba annoverarsi fra i manufatti raccolti tra la fine dell’Ottocento e l’alba del secolo successivo da Padre Pietro da Voltaggio nella chiesa di Santa Caterina di Genova e provenienti da complessi religiosi dell’ordine francescano chiusi al culto a seguito delle soppressioni del 1866.

Appartenente con probabilità a una più complessa macchina d’altare all’interno della quale doveva dialogare con un analogo riquadro raffigurante l’Angelo annunciante andato disperso, la tavola è stata oggetto in tempi recenti di un’attenta disamina critica. Da tali studi è scaturita la sicura appartenenza dell’opera al catalogo di Gandolfino da Roreto, con particolare riferimento alla produzione della fine dell’ultimo decennio del XV secolo, in stretto rapporto con il polittico, firmato “gandulfinus pinxit” e datato 1493, raffigurante l’Assunzione, santi e l’Incoronazione della Vergine (Torino, Galleria Sabauda) proveniente dalla chiesa di San Francesco ad Alba. Fu Giovanni Romano a riconoscere nella composizione un esempio della raffinata arte del maestro piemontese, proposta che ha trovato ampio respiro e fondamentali conferme negli studi di Simone Baiocco, per il quale la composizione potrebbe addirittura anticipare dal punto di vista cronologico la giovanile ancona pervenuta al museo piemontese per “una più diretta connessione con quella cultura “mediterranea” che è la matrice in grado di spiegare particolari come il drappo che fa da sfondo alla scena, oppure il nimbo della Vergine, rilevato a pastiglia come più consueto nella pittura del versante iberico”. Componenti a cui possono essere sommate per certi aspetti le fragili eleganze di sapore ancora primo quattrocentesco percepibili nella costruzione dell’andamento delle pieghe della veste sottolineate da preziose pennellate ricche di materia lucente, in seguito non così evidenti nel linguaggio figurativo di Gandolfino. Pur considerando l’attuale assenza di notizie certe riguardanti la possibile collocazione antica dell’insieme a cui appartenne questo elemento, forse davvero concepito come “portello apribile” vista la presenza sul retro della rappresentazione dei simboli della Passione ascrivibili senza dubbi alla stessa mano, potrebbe comunque non risultare del tutto errato pensare come proposta di lavoro quantomeno a una provenienza da un convento appartenente allo stesso ordine ubicato nel territorio del Basso Piemonte e in particolare nell’area alessandrina, ambito dove gli esiti dell’artista astigiano trovarono ampi consensi inserendosi tra l’altro all’interno di una fitta rete di intrecci culturali che sin dalla seconda metà del trecento unirono questa zona alle vicende artistiche genovesi. Una realtà quest’ultima non ignota allo stesso Gandolfino, e che anzi contribuì verosimilmente con preponderanza alla creazione della sua raffinata e ricca sigla stilistica. Un legame documentato non in modo superficiale proprio dalla Vergine annunciata del convento dell’Annunziata di Portoria anche attraverso rimandi all’arte di Ludovico Brea, contatti che potrebbero essere scaturiti da una frequentazione da parte del giovane Gandolfino dello stesso ambiente genovese o da un suo soggiorno “in altra parte della regione ligure”; realtà dove, dopo un primo discepolato a contatto con il padre Giovanni, anch’egli pittore, Gandolfino potrebbe aver mosso da solo i primi passi.
 

Orazio De Ferrari "La Vergine Immacolata e i santi Antonio di Padova e Francesco"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Orazio De Ferrari (Voltri, 1606-1657)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 300 x 176 cm

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Il percorso di Orazio De Ferrari è scandito, a partire dai primi anni Quaranta del secolo XVII, da una fitta sequenza di pale d’altare destinate alle chiese dei Cappuccini. Apre la serie il dipinto, firmato e datato 1643, che oggi è conservato nella chiesa dei Santi Nazario e Celso di Arenzano e che propone alla devozione dei fedeli la mite figura dello spagnolo Felice da Cantalice; seguono poi le due tele di Pontedecimo, fra le quali si annovera quella qui presentata (restaurata nel 2009 da Aurelia Costa e Francesca Ventre con fondi statali) e le due pale d’altare inviate in Sardegna per le fondazioni cappuccine di Villasor e di Quartu Sant’Elena. Agli anni della piena maturità appartiene poi uno dei vertici dell’intera produzione di Orazio, e cioè la Comunione della Maddalena, oggi conservata a Sanremo, opera realizzata per Porto Maurizio. Della tela inviata a Pontremoli - appartenente allora alla Provincia di Genova - resta purtroppo solo un frammento della parte superiore. Va inoltre ricordato che nel testamento del pittore, rogato il 14 settembre 1657 mentre il maestro stava per soccombere alla pestilenza, si dispone la restituzione ai Cappuccini di una somma, probabilmente un acconto ricevuto per un’opera destinata a non vedere la luce.

Come si è detto, la tela restaurata proviene dall’altare maggiore della chiesa di Pontedecimo e per alcuni decenni, prima del ricovero a Portoria, è stata dotata di apparato meccanico per utilizzarla nella pia pratica delle “scoperture”; nel corso del restauro la complessa intelaiatura lignea e la fascia perimetrale metallica applicate in quell'occasione sono state rimosse - ma non distrutte - perché la loro permanenza non era più giustificabile. In questa occasione si è potuto verificare che il formato della pala era stato ridotto e che la fascia metallica celava circa 4 cm di tela dipinta su ciascuno dei lati lunghi. La rimozione delle ridipinture, peraltro non molto estese, ha consentito alla rossa veste della Vergine, impreziosita dalle lacche, di riacquistare il brillante tono originale; la pulitura ha reso inoltre nuovamente leggibile il raffinato contrappunto dei grigi di madreperla che caratterizzano le toppe della veste di San Francesco ed anche il dilagare dei raggi dell’aurora consurgens sull’immaginario paesaggio della zona inferiore, costellato di riferimenti - fra gli altri la ianua, la turris, la fons - agli appellativi mariani.

Per quanto riguarda la datazione, si ritiene appropriata una collocazione del dipinto a ridosso del 1650, alcuni anni dopo la conclusione dei lavori di costruzione del complesso conventuale, conclusione che l’anonimo compilatore delle Notizie del Convento di Pontexmo cavate dall’Archivio del medesimo Convento (Genova, Archivio Provinciale dei Cappuccini, ms, post 1815) colloca nel 1645.

Giovanni Battista Casoni "Adorazione dei pastori"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Giovanni Battista Casoni (Lerici, 1610 - Genova, 1686)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 123 x 148 cm

San Luca è l’unico degli evangelisti a specificare che l’annuncio ai pastori della nascita di Gesù avvenne mentre questi “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” (Luca 8,8), mentre si deve a San Giovanni la definizione di Cristo “luce del mondo” (Giovanni 8,12; 9,5) che certamente, al pari della cosiddetta “gran luce che gli occhi non potevano sopportare” così descritta nel Protovangelo di Giacomo (19,2), uniforma e caratterizza non solo il dipinto preso in esame, ma anche illustri precedenti: dalla celeberrima Notte del Correggio alle note sperimentazioni cambiasesche, dalla pala di Fermo di Rubens fino alle successive declinazioni di scuola locale da Domenico Piola al Gaulli.

Grazie al restauro, condotto dal Laboratorio delle Scuole Pie nel 2007, la tela si presenta oggi in buone condizioni e permette di ragionare con una certa serenità sulla sua esecuzione.

Come autore si era inizialmente proposto il nome di Domenico Fiasella che certamente nei suoi anni romani ebbe la possibilità di apprezzare molte opere “a lume di notte” realizzate da artisti d’oltralpe presenti a Roma negli stessi anni, come Van Baburen, Van Honthorst, Terbrugghen, compresa la pala destinata a Fermo a cui Rubens lavorava nella primavera del 1608. In particolare questo contatto sembra dimostrato da un piccolo dipinto, reso noto da Piero Boccardo e Anna Orlando, dove al di là del soggetto iconografico la vera protagonista è proprio l’atmosfera notturna e dove è possibile scovare un pastore “nella posizione semigenuflessa di ascendenza cambiasesca, ma aggiornata sulla corrispondente figura rubensiana da cui sono ripresi, ribaltandoli, anche lo sguardo e il gesto del fanciullo che gli è accanto”. E così nello stesso modo anche nell’opera in esame, molto simile per impaginazione al piccolo dipinto di collezione privata, è possibile rintracciare simili echi figurativi: si noti la figura sulla destra intenta a indicare, mentre a sinistra si riconosce san Giuseppe che si appoggia al bastone e al centro la luce di Cristo Salvatore venuto al mondo, contemplato dalla Vergine che, nell’opera qui esposta, non solleva raffaellescamente il velo, ma cinge amorevolmente la culla di paglia in cui il Bambino è adagiato.

Nonostante questa ragionevole proposta attributiva, pare appropriato non tralasciare il possibile ruolo giocato da Giovanni Battista Casoni, il più abile e fedele collaboratore di Fiasella, in virtù di una pennellata visibilmente più mossa e sfrangiata se paragonata alle consuete soluzioni del Sarzana, di lumeggiature epidermiche particolarmente efficaci e capaci di modellare dolcemente le forme, di un segno scavato utile a segnare le espressioni dei pastori e di una tipica incertezza volumetrica con cui di frequente il Casoni descrive le sue figure. Anche le qualità fisiognomiche del volto della Vergine Maria appaiono distanti dai noti e sodi prototipi fiaselleschi e semmai più prossime ad alcune tele attribuite ormai con certezza al discepolo.

Quando l’opera venne donata nel 2002 ai Frati Cappuccini era registrata come copia da Van Honthorst, senza alcun riferimento alla scuola locale che invece pare, senza dubbio, il contenitore più giusto a cui far riferimento. Una cronologia esecutiva tra quinto e sesto decennio del XVII secolo sembra inoltre avvalorare la possibilità di trovarsi dinnanzi a un’opera del Casoni, memore dei modi fiaselleschi declinati però con una certa autonomia di forme e resa pittorica.

 

 

Anonimo scultore dei Paesi Bassi Meridionali "Svenimento della Vergine"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Anonimo scultore dei Paesi Bassi Meridionali (XV secolo)

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Legno di quercia scolpito, dipinto e dorato, 62 x 70 x 23 cm


Secondo le notizie riportate oralmente da padre Cassiano da Langasco, il gruppo scultoreo pervenne nel convento dei Cappuccini di Portoria dalla chiesa agostiniana di Santa Maria in Passione di Genova, collocazione dove l’opera potrebbe essere però giunta solo nel XIX secolo quando in questo edificio trovarono sede le monache canonichesse lateranensi. La mancanza di informazioni circa l’antica provenienza del manufatto rende particolarmente difficile la ricostruzione delle sue vicende antiche, nonché l’identificazione del probabile committente. È quindi per ora impossibile comprendere in che periodo lo Svenimento della Vergine giunse a Genova e per quali motivi, se ancora inserito all’interno di un retablo di grandi dimensioni raffigurante la Crocifissione acquistato da un mecenate della Superba per ornare un altare di un edificio ecclesiastico cittadino, secondo modalità simili al dossale fiammingo conservato nella chiesa di Santa Margherita di Testana, oppure se già diviso dagli altri blocchi lignei che costituivano, assemblati, un polittico smembrato, e pertanto forse destinato anche a una devozione a carattere privato.

Ritenuto in passato un elemento “proveniente da una deposizione gotica. Secolo XVI”, più recentemente lo Svenimento è stato oggetto di un’attenta analisi stilistica da parte di Laura Lagomarsino, la quale ha proposto un convincente accostamento alla produzione dell’ambito bruxellese degli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento, evidenziando in particolare stretti legami linguistici con il retablo delle Scene della Passione (Bruxelles, Museés Royaux d’Art et d’Histoire), eseguito verso il 1479 per il piemontese Claudio Villa e la consorte Gentilina Solaro. Gli importanti dati tecnici emersi grazie all’intervento di restauro realizzato nel 2004, a seguito del quale è stato possibile liberare la superficie del manufatto da pesanti e fuorvianti ridipinture, consentono di confermare l’attribuzione dell’opera a un artista attivo a Bruxelles verso la fine del Quattrocento, forse a ridosso della conclusione del secolo, come sembrano dimostrare alcuni caratteri stilistici. Nel dettaglio il riferimento è alla resa delicata degli incarnati e degli incisivi tratti somatici, agli atteggiamenti volutamente posati, pur nella loro drammaticità, dei personaggi, alla disposizione delle pieghe che solcano le vesti e alle complesse acconciature femminili nonché alle ciocche del capo del giovane evangelista, caratteri che evidenziano invero uno stretto rapporto proprio con la statuaria bruxellese degli anni finali del XV secolo. La stessa preziosa policromia, arricchita in alcuni punti, come in corrispondenza del manto di san Giovanni, da raffinate dorature e, nella veste della donna collocata in primo piano a destra, dall’elaborata tecnica del pressbrokat, suggerisce una possibile provenienza del gruppo da una delle migliori botteghe operanti nella cittadina fiamminga nel corso degli ultimi decenni del Quattrocento.

La scultura, concepita dunque per essere collocata al centro di un retablo, è stata realizzata utilizzando un unico blocco di rovere, non scolpito nel retro, sul quale non sono stati individuati i contrassegni di garanzia del legno.
 

 

 

Bernardo e Francesco Maria Schiaffino "Ratto di Proserpina"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Bernardo e Francesco Maria Schiaffino

Tipologia:

Scultura

Tecnica e misure:

Marmo bianco di Carrara, 220 x 100 cm

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La scultura è evidentemente ispirata al gruppo di Plutone e Proserpina, scolpito da Gian Lorenzo Bernini tra il 1621 e il 1622 per il cardinal Scipione Borghese, e tuttora esposto nella sua villa romana e vertice indiscusso di tutta la plastica barocca. Di essa costituisce una naturale evoluzione in direzione tardo-barocca. Come nel prototipo romano, Plutone dio degli Inferi rapisce la figlia di Cerere, mentre le tre teste di Cerbero latrano  all’entrata dell’Averno. Le due figure divine si elevano sopra lo scoglio sfaccettato tipico della scultura genovese da Filippo Parodi in poi, dal quale qui fiammeggiano lingue di fuoco e serti di quercia.

Circa l’attribuzione nuovi ritrovamenti d’archivio hanno reso possibile anticipare la datazione tradizionalmente attribuita alla scultura dal 1724-1725 al 1705 circa. Questo fatto modifica di conseguenza anche la paternità esecutiva da Francesco Maria Schiaffino, rientrato da Roma nel 1724, al fratello maggiore Bernardo, a cui va riferita l’ideazione, anche nel caso l’esecuzione possa essere condivisa dai due fratelli scultori. Bernardo nel 1705 aveva sia lo status sia le capacità tecniche per l’esecuzione di un pezzo così importante, mentre il più giovane, che all’epoca aveva 17 anni, può averlo assistito come aiuto.

Bernardo Strozzi "Elemosina di san Lorenzo"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Bernardo Strozzi, detto il Cappuccino (Campo Ligure o Genova, 1582 - Venezia, 1644)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 128 x 160 cm

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San Lorenzo, uno dei santi patroni genovesi, è rappresentato con grande forza di realtà mentre fa l’elemosina ai poveri, causa della sua condanna a morire sulla graticola. Sulla sinistra è Lorenzo, il giovane volto emerge appena dall’oscurità che avvolge la scena. La luce lo colpisce di spalle, mettendo in risalto l’ampia manica di raso rosso della dalmatica, la mano aperta poggiata sul tavolo, il collo delicato, l’orecchio arrossato, l’aureola. Di fronte al santo è un gruppo di mendicanti: un vecchio con barba bianca che afferra la catena di un incensiere, una donna in piedi con bastone e, accanto, una seconda figura che brandisce una gruccia, una bambina con le mani giunte che guarda Lorenzo dal basso. Tutti vestono panni umili, ma hanno atteggiamenti e tratti di umana compostezza e dignità. Sul tavolo, in primo piano, sono appoggiati oggetti liturgici. La fonte luminosa, esterna al campo visivo, è posta dall’artista a sini­stra dell’osservatore: investe le figure violentemente, come un faro puntato nel buio, creando bagliori metallici.

Valerio Castello "Ratto di Proserpina"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Valerio Castello (Genova, 1624-1659)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 147 x 217 cm

 

Proserpina, figlia di Zeus e Demetra, coglie fiori in un prato insieme alle sue compagne nella pianura di Nisa in Sicilia. Appare improvviso il figlio di Crono, Plutone: Eros con le sue frecce lo ha fatto innamorare, spingendolo a rapire la fanciulla e a trascinarla col suo carro nell’oltretomba dove intende sposarla. Al centro del quadro, Plutone afferra alla vita la giovane dea che, cercando di liberarsi dalla presa possente, leva il braccio destro. Il rapitore, avvolto da drappeggi rossi e bianchi dai quali emergono il torso muscoloso e la gamba destra, ha una corona sul capo e la barba folta.

La fanciulla è fasciata invece da un panno blu e una camicia di seta leggera che le lascia quasi completamente scoperti i seni. Entrambi sono trasportati da un cocchio dorato trainato da due cavalli, che sembra stiano per inabissarsi in una voragine infuocata sull’estre­ma destra del quadro. La scena si svolge in una radura e ne sono spettatrici quattro fanciulle, due sedute in primo piano e due a sinistra sotto le fronde di un albero.

Bartolomeo Guidobono "Cerere e Bacco"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Bartolomeo Guidobono (Savona, 1654 - Torino, 1709)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 148 x 118 cm

 

Il dipinto, e il suo pendant raffigurante Bacco, appartennero già alla collezione dei Durazzo per i quali Bartolomeo Guidobono, secondo le antiche cronache, realizzò diverse opere sia per le dimore di città, sia per quelle di campagna. Dello stesso autore, in effetti, il palazzo di via Balbi conserva anche un Apollo pastore e una Diana ed Endimione. Bacco e Cerere alludono all’autunno e all’estate e probabilmente fecero parte in origine di un gruppo di quattro tele dedicate alle stagioni. L’artista sembra voler coinvolgere lo spettatore nella dinamica misteriosa delle due composizioni con un gioco studiato di gesti, sguardi e sorrisi invitanti. Le tele sono caratterizzate dalla morbidezza degli impasti, dalla luce che coglie le figure da un fondo indefinito e dall’armonia dei colori, tutti elementi che ben rappresentano la sigla stilistica del pittore savonese.

Clorinda salva Olindo e Sofronia

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Luca Giordano (Napoli, 1634-1705)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela

 

La vicenda rappresenta l’episodio di apertura del secondo canto della Gerusalemme Liberata: per salvare i cristiani di Gerusalemme Sofronia, seppur innocente, si accusa di aver sottratto una immagine sacra – quella che gli angeli nei cieli mostrano chiaramente – dalla moschea e per questo viene condannata al rogo. Olindo, che l’ama in segreto, si professa colpevole e viene con lei mandato a morte. Clorinda, “d’arme e d’abito straniero”, salva però le loro vite perché, mossa da pietà, offre il suo appoggio al re nella guerra contro i crociati in cambio della liberazione dei due giovani. Così come la Lotta tra Perseo e Fineo anche questo altro quadro monumentale rivela una qualità elevatissima e sontuosa: il pennello passa con disinvoltura da bianchi argentati a rosa chiarissimi, da gialli di cadmio a porpora opulenti e vellutati, sapendo conferire all’insieme una orchestrazione luministica di efficacissima resa.

Luca Giordano "Lotta tra Perseo e Fineo"

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Luca Giordano (Napoli, 1634-1705)

Tipologia:

Dipinto

Tecnica e misure:

Olio su tela, 375 x 366 cm

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La grande tela rappresenta uno degli episodi cruciali del mito di Perseo, figlio di Zeus e Danae, raccontato nel quinto libro delle Metamorfosi di Ovidio, in cui salva Andromeda, sua sposa. La donna era però stata promessa a Fineo che, per vendicare il suo rifiuto, irrompe al banchetto di nozze con una schiera di guerrieri. Perseo, rappresentato qui sulla destra, si difende dall’aggressione esponendo la testa della Gorgone Medusa, che con gli occhi pietri­fica i nemici. Di fronte a lui è Fineo che tenta di proteggersi con lo scudo. Ai suoi piedi sono alcuni dei suoi seguaci caduti e sullo sfondo i convitati atterriti che si coprono gli occhi per sfuggire al sortilegio. L’imponente composizione di Luca Giordano, firmata sul primo gradino in basso a sinistra, è ricca di invenzioni scenografiche e di effetti teatrali, come le due colonne al centro della scena alle quali si avviluppa un drappo rosso cupo, utili a dividere la scena.

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