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Alessandro Tiarini (Bologna, 1577-1668)
Olio su tela, cm. 60.4 x 48 x 1.5
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Alessandro Tiarini (Bologna, 1577-1668)
Olio su tela, cm. 60.4 x 48 x 1.5
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Amico Aspertini (Bologna, 1474 circa - 1552)
Olio su tavola, cm. 55 x 40
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Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 - Milano, 1625)
Olio su tela, cm. 132 x 114
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Benvenuto Tisi, detto il Garofalo (Ferrara, 1481 circa - 1559)
Olio su tela, cm. 43 x 33
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San Matteo Apostolo
Brignole-Sale De Ferrari Maria 1874 Genova - donazione
Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 - Milano, 1625)
dipinto
1621 - 1621 - sec. XVII
PR 114
Unità di misura: cm; Altezza: 122; Larghezza: 90
olio su tela
Procaccini, Cerano, Morazzone. Dipinti lombardi del primo seicento dalle civiche collezioni genovesi - Genova - 1992
Van Dyck a Genova. Grande pittura e collezionismo - Genova - 1997
I quattro dipinti degli apostoli (San Matteo, San Paolo, San Simone, San Tommaso) facevano parte di una dispersa serie dei dodici apostoli, in origine completata anche dalle immagini di Cristo e della Vergine per un totale di quattordici tele, dipinta per Gio. Carlo Doria - secondo quanto attesta una lettera di Simon Vouet- intorno alla fine del 1621. Una seconda lettera scritta da Orazio Fregoso al Doria documenterebbe tuttavia, nel mese di dicembre dello stesso anno, una grave infermità del Procaccini, motivo per il quale la critica aveva ipotizzato che solo il San Tommaso fosse di mano del maestro e che gli altri quadri, che apparivano inferiori per qualità, fossero stati realizzati da qualche aiuto. Pare tuttavia inverosimile che l’artista abbia affidato a un allievo l’incarico di realizzare parte di un ciclo commissionatogli dal suo più illustre committente; gli ultimi restauri hanno inoltre evidenziato l’omogenea qualità pittorica delle quattro tele. Dopo il 1645 passò in eredità ai discendenti di Gio. Luca Doria, fratello più giovane di Gio. Carlo, che nel 1678 ne cedettero uno a Ottavio Centurione e cinque a Cristoforo Centurione Oltremarini. A sua volta il figlio di quest'ultimo, Pietro Francesco, vendette nel 1730 circa quattro delle cinque tele a Gio. Francesco II Brignole-Sale che le sistemò a Palazzo Rosso. L’identità dei santi è chiara in considerazione degli attributi delle figure, che ricorrono non a caso anche in altre serie di uguale soggetto, come quella realizzata da Pietro Paolo Rubens oggi al Prado: San Paolo tiene la mano appoggiata sull’impugnatura della spada, che simboleggia la sua decapitazione; San Tommaso tiene una lancia strumento del suo martirio; San Simone il libro e San Matteo l’alabarda, arma con la quale venne martirizzato. Le figure sono monumentali e si impongono per il corposo rilievo e per l’accentuato movimento di torsione dei corpi: Procaccini aveva lavorato come scultore fra il 1591 e 1599 presso il cantiere del Duomo di Milano e quest'attività ha senza dubbio influenzato il suo stile pittorico. Il marcato chiaroscuro dei dipinti è invece comune alle scelte formali degli altri lombardi attivi a inizio seicento per la committenza religiosa della chiesa controriformata: in particolare Giovan Battista Crespi il ‘Cerano’ e Pier Francesco Mazzucchelli il ‘Morazzone’. Il dipinto rappresenta il ritratto di San Matteo Apostolo con in mano un'alabarda.
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Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 - Milano, 1625)
Olio su tela, 122 x 90 cm
I quattro dipinti conservati in Palazzo Rosso sono parte di una dispersa serie di Dodici Apostoli – in origine completata anche dalle immagini di Cristo e della Vergine per un totale di quattordici tele – commissionata dal nobile Gio. Carlo Doria all’artista bolognese, ma milanese di adozione, Procaccini. Una lettera del pittore Simon Vouet al committente ne testimonia l’esecuzione nell’autunno del 1621.
Una seconda lettera scritta da Orazio Fregoso al Doria documenterebbe, tuttavia, nel mese di dicembre dello stesso anno, una grave infermità di Procaccini, motivo per il quale la critica aveva ipotizzato che solo il San Tommaso fosse di mano del maestro e che gli altri quadri, che apparivano inferiori per qualità, fossero stati realizzati da qualche aiuto. Pare, tuttavia, inverosimile che l’artista abbia affidato a un allievo l’incarico di realizzare parte di un ciclo commissionatogli dal suo più illustre committente. Inoltre, gli ultimi restauri hanno evidenziato l’omogenea qualità pittorica delle quattro tele.
L’identità dei santi è chiara in considerazione degli attributi delle figure, che ricorrono non a caso anche in altre serie di uguale soggetto, come quella realizzata da Peter Paul Rubens oggi al Prado: San Paolo tiene la mano appoggiata sull’impugnatura della spada, che simboleggia la sua decapitazione; San Tommaso tiene una lancia strumento del suo martirio; San Simone il libro e San Matteo l’alabarda, arma con la quale venne martirizzato.
Le figure sono monumentali e si impongono per il corposo rilievo e per l’accentuato movimento di torsione dei corpi: Procaccini aveva lavorato come scultore fra il 1591 e il 1599 presso il cantiere del Duomo di Milano e quest’attività ha senza dubbio influenzato il suo stile pittorico. Il marcato chiaroscuro dei dipinti è, invece, comune alle scelte formali degli altri lombardi attivi a inizio Seicento per la committenza religiosa della chiesa controriformata: in particolare Giovan Battista Crespi il “Cerano” e Pier Francesco Mazzucchelli il “Morazzone”.
I quattro dipinti entrarono a far parte della collezione di Palazzo Rosso nel 1730 circa, grazie all’acquisto di Gio. Francesco II Brignole - Sale.
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Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 - Milano, 1625)
Olio su tela, cm. 122 x 90
I quattro dipinti conservati in Palazzo Rosso sono parte di una dispersa serie di Dodici Apostoli – in origine completata anche dalle immagini di Cristo e della Vergine per un totale di quattordici tele – commissionata dal nobile Gio. Carlo Doria all’artista bolognese, ma milanese di adozione, Procaccini; una lettera del pittore Simon Vouet al committente ne testimonia l’esecuzione nell’autunno del 1621.
Una seconda lettera scritta da Orazio Fregoso al Doria documenterebbe tuttavia, nel mese di dicembre dello stesso anno, una grave infermità di Procaccini, motivo per il quale la critica aveva ipotizzato che solo il san Tommaso fosse di mano del maestro e che gli altri quadri, che apparivano inferiori per qualità, fossero stati realizzati da qualche aiuto. Pare tuttavia inverosimile che l’artista abbia affidato a un allievo l’incarico di realizzare parte di un ciclo commissionatogli dal suo più illustre committente; gli ultimi restauri hanno inoltre evidenziato l’omogenea qualità pittorica delle quattro tele.
L’identità dei santi è chiara in considerazione degli attributi delle figure, che ricorrono non a caso anche in altre serie di uguale soggetto, come quella realizzata da Pietro Paolo Rubens oggi al Prado: san Paolo tiene la mano appoggiata sull’impugnatura della spada, che simboleggia la sua decapitazione; san Tommaso tiene una lancia strumento del suo martirio; san Simone il libro e san Matteo l’alabarda, arma con la quale venne martirizzato.
Le figure sono monumentali e si impongono per il corposo rilievo e per l’accentuato movimento di torsione dei corpi: Procaccini aveva lavorato come scultore fra il 1591 e il 1599 presso il cantiere del Duomo di Milano e quest’attività ha senza dubbio influenzato il suo stile pittorico. Il marcato chiaroscuro dei dipinti è invece comune alle scelte formali degli altri lombardi attivi a inizio Seicento per la committenza religiosa della chiesa controriformata: in particolare Giovan Battista Crespi il “Cerano” e Pier Francesco Mazzucchelli il “Morazzone”.
I quattro dipinti entrarono a far parte della collezione di Palazzo Rosso nel 1730 circa, grazie all’acquisto di Gio. Francesco II Brignole - Sale.
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Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 - Milano, 1625)
Olio su tela, 122 x 90 cm
I quattro dipinti conservati in Palazzo Rosso sono parte di una dispersa serie di Dodici Apostoli – in origine completata anche dalle immagini di Cristo e della Vergine per un totale di quattordici tele – commissionata dal nobile Gio. Carlo Doria all’artista bolognese, ma milanese di adozione, Procaccini. Una lettera del pittore Simon Vouet al committente ne testimonia l’esecuzione nell’autunno del 1621.
Una seconda lettera scritta da Orazio Fregoso al Doria documenterebbe, tuttavia, nel mese di dicembre dello stesso anno, una grave infermità di Procaccini, motivo per il quale la critica aveva ipotizzato che solo il San Tommaso fosse di mano del maestro e che gli altri quadri, che apparivano inferiori per qualità, fossero stati realizzati da qualche aiuto. Pare, tuttavia, inverosimile che l’artista abbia affidato a un allievo l’incarico di realizzare parte di un ciclo commissionatogli dal suo più illustre committente. Inoltre, gli ultimi restauri hanno evidenziato l’omogenea qualità pittorica delle quattro tele.
L’identità dei santi è chiara in considerazione degli attributi delle figure, che ricorrono non a caso anche in altre serie di uguale soggetto, come quella realizzata da Peter Paul Rubens oggi al Prado: San Paolo tiene la mano appoggiata sull’impugnatura della spada, che simboleggia la sua decapitazione; San Tommaso tiene una lancia strumento del suo martirio; San Simone il libro e San Matteo l’alabarda, arma con la quale venne martirizzato.
Le figure sono monumentali e si impongono per il corposo rilievo e per l’accentuato movimento di torsione dei corpi: Procaccini aveva lavorato come scultore fra il 1591 e il 1599 presso il cantiere del Duomo di Milano e quest’attività ha senza dubbio influenzato il suo stile pittorico. Il marcato chiaroscuro dei dipinti è, invece, comune alle scelte formali degli altri lombardi attivi a inizio Seicento per la committenza religiosa della chiesa controriformata: in particolare Giovan Battista Crespi il “Cerano” e Pier Francesco Mazzucchelli il “Morazzone”.
I quattro dipinti entrarono a far parte della collezione di Palazzo Rosso nel 1730 circa, grazie all’acquisto di Gio. Francesco II Brignole - Sale.
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Ludovico Carracci (Bologna, 1555-1619)
Olio su rame, cm. 58 x 41
Ludovico Carracci, insieme con i cugini Agostino e Annibale, fu uno dei protagonisti della pittura del Seicento. Essi fondarono nel 1582 a Bologna l’Accademia delli Desiderosi, in seguito delli Incamminati, in cui vennero educati molti dei principali artisti dell’epoca nel segno del rinnovamento della pittura, contrapponendo agli stanchi canoni manieristi lo studio del vero, dei grandi maestri del Cinquecento e dell’equilibrio dell’arte classica.
Egli eseguì questo piccolo capolavoro a Bologna, al ritorno dal suo breve soggiorno romano (1602), dove aveva aggiornato, sul classicismo della Capitale, la sua poetica già attenta alle istanze moraleggianti della Controriforma, che chiedeva all’arte sacra di svolgere un compito di stimolo devozionale.
Si ignora l’origine del dipinto, ma le piccole dimensioni e la preziosità del supporto di rame inducono a pensare che si tratti di un’opera destinata alla fruizione di un committente privato di alta condizione sociale.
Questa Annunciazione costituisce uno degli esiti più aggraziati della produzione artistica di Ludovico in cui il pittore, abbandonato ogni intento monumentale, depurato il linguaggio da componenti troppo naturali o passionali, si abbandona a una pittura delicata e vagamente sentimentale. La composizione semplice ed equilibratissima, l’impianto prospettico ben definito, coronato dalla gioiosa e movimentata serie di angioletti, gli effetti luministici contenuti entro un tono smorzato di ombra diffusa e impreziositi dalla delicatissima gamma cromatica basata sui colori rosa, azzurro e giallo delle vesti, creano un’atmosfera raffinata, ma pure severa e domestica, fornendo un senso di religiosità intimamente vissuta. L’evento sacro non è concepito come distante, bensì come parte della vita quotidiana di ciascuno, tanto è vero che, dal balcone della dimora dove si svolge la scena, si
intravedono in lontananza le torri bolognesi della Garisenda e degli Asinelli.
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San Sebastiano
Brignole-Sale De Ferrari Maria 1874 Genova - donazione
Guido Reni (Bologna, 1575-1642)
dipinto
1616 - 1617 - sec. XVII
PR 77
Unità di misura: cm; Altezza: 127; Larghezza: 92
olio su tela
La vita, i simboli e la fortuna di Guido Reni - Bologna - 1988
Genova e Guercino. Dipinti e disegni delle civiche collezioni - Genova - 1992
Carlo Bonomi l'ultimo sognatore dell'officina ferrarese - Ferrara - 2017
Verdammte lust! Kirche korper kunst - Frisinga - 2023
Il dipinto si riferisce agli anni 1615-1616, ovvero immediatamente prima della consacrazione ufficiale quale miglior artista bolognese vivente attraverso la pala dell'Assunta destinata alla chiesa genovese del Gesù. A partire dai venticinque anni ebbe frequenti e lunghi soggiorni a Roma, dove fu assai apprezzato dalla famiglia del Papa e da altri membri della corte pontificia. Anche questa tela, dove è rappresentato San Sebastiano, che secondo la tradizione fu un soldato romano originario della Gallia martirizzato al tempo di Diocleziano, deve essere frutto di quel genere di commissioni, poiché oltre all’alta qualità pittorica, recenti analisi hanno dimostrato aggiunga una pregiata realizzazione, dato che per il blu del cielo è stato largamente usato il lapislazzulo, tanto costoso da essere in genere fornito o pagato a parte dal committente. L’immagine, rispondendo agli ideali classici della poetica di Reni, non mostra il corpo di un martire sfregiato dai dardi e percorso da rivi di sangue, ma quello idealizzato di un giovane dalla bellezza decisamente venata di sensualità. Particolarmente significativa, in questa tela, è l'impostazione della figura del santo, in quanto lo storiografo bolognese seicentesco Carlo Cesare Malvasia attesta la capacità dell'artista a dipingere le "teste all'insù". Reni riprese più volte questo soggetto nel corso della sua attività: del 1617-18 è il dipinto oggi conservato al Museo del Prado a Madrid, del 1639-40 quello della Pinacoteca Nazionale di Bologna; di tutti esiste poi un numero consistente di copie. Anche il Cardinal Borghese ne volle un’analoga versione, frutto almeno in buona parte della bottega dell’artista, e oggi conservata presso la Pinacoteca Capitolina. Il dipinto rappresenta San Sebastiano legato a un albero e trafitto da frecce.
Sede:
Comune di Genova - Palazzo Tursi
Via Garibaldi 9 - 16124 Genova
C.F. / P.iva 00856930102