Il Museo del Risorgimento di Genova conserva il documento originale autografo recante la prima stesura del Canto degli Italiani, meglio conosciuto come L’Inno di Mameli.
Scritto nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne Goffredo Mameli e musicato il 5 dicembre a Torino dal genovese Michele Novaro, risuonò per la prima volta in pubblico il 10 dicembre 1847 a Genova, in occasione della prima manifestazione pubblica del Risorgimento, quando sventolò, come simbolo di unità, la bandiera tricolore della Giovine Italia, e da allora si diffuse in ogni parte d’Italia, divenendo ben presto l’inno simbolo dell’unificazione nazionale, non solo durante la stagione risorgimentale ma anche nei decenni successivi.
Fratelli d’Italia divenne l’Inno nazionale italiano soltanto dopo la proclamazione della Repubblica italiana ( in via provvisoria il 12 ottobre 1946 e in via definitiva nel 2017), ma quando Giuseppe Verdi nel 1862 compose l’Inno delle Nazioni accanto alla Marsigliese per la Francia e a God save the Queen per l’Inghilterra, a rappresentare l’Italia inserì Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli, ritenendo che in esso si riconoscesse l’Italia appena unificata, sebbene l’inno nazionale ufficiale dell’epoca fosse la Marcia reale in uso dai tempi di Carlo Felice re di Sardegna, esteso poi al Regno d’Italia, e utilizzato fino alla caduta di Mussolini.
GLI AUTORI
Goffredo Mameli
Goffredo Mameli nacque a Genova il 5 settembre 1827: morì a soli 21 anni, combattendo a difesa della Repubblica Romana, il 6 luglio 1849. Poeta-scrittore-patriota-soldato: Mazzini lo prediligeva fra tutti i suoi seguaci perché la sua personalità racchiudeva la perfetta sintesi di pensiero e azione.
I suoi versi non erano pura esercitazione letteraria: per l’Italia “siam pronti alla morte”, scriveva nel suo inno più famoso, quasi presagendo la sua fine gloriosa.
Discendeva da famiglia aristocratica: la madre, la marchesa Zoagli Lomellini, amica d’infanzia di Mazzini, ne comprese la sensibilità e le aspirazioni. Il padre, d’origine sarda, era invece un fedele di Casa Savoia ed aveva fatto carriera nella marina militare.
A Goffredo facevano riferimento i tanti giovani legati a Mazzini e ai suoi ideali di unità e di repubblica. Scrisse opuscoli politici, fondò un giornale, fu l’anima di tutte le manifestazioni che sin dal 1846 miravano ad ottenere da Carlo Alberto riforme costituzionali. Organizzò la manifestazione patriottica del 10 dicembre durante la quale sventolò, come simbolo di unità, la bandiera tricolore della Giovine Italia. Corse in aiuto dei milanesi insorti contro gli Austriaci, partecipò alla prima guerra di Indipendenza; dopo la sconfitta accorse tra i primi a Roma, dove, fuggito il Papa, il 9 febbraio 1849 era stata dichiarata la Repubblica.
Michele Novaro
Michele Novaro nacque a Genova il 23 dicembre 1818. Sin da bambino frequentò l’ambiente teatrale e musicale (il padre era tecnico di scena al Teatro Carlo Felice; la madre, Giuseppina Canzio, era sorella di Michele, artista famoso e autore di numerose scenografie teatrali).
Novaro si formò culturalmente alla scuola di canto e di composizione, annessa al teatro Carlo Felice. Quando musicò i versi di Mameli lavorava a Torino come secondo tenore e maestro del Coro dei teatri Regio e Carignano. Tornò più tardi a Genova dove fondò una scuola di musica, impartendo lezioni gratuite ai giovani più poveri.
Fu compositore fecondo e, soprattutto, ottimo maestro e organizzatore di concerti, quasi sempre per beneficenza o per sostenere il movimento risorgimentale. Patriota e altruista, viveva di un misero sussidio, quasi dimenticato. Morì a Genova il 20 ottobre 1885.
I versi e la melodia
La prima stesura autografa dei “Fratelli d’Italia” è all’interno di un quaderno personale del poeta con appunti, considerazioni, poesie, scritti vari.
Si vede la frenesia con cui la penna di Mameli riversa concetti e rime.
Inizia scrivendo: “è sorta dal feretro”. Ha un attimo di esitazione; il verso non lo soddisfa nella forma; ricomincia daccapo.
”Evviva l’Italia, l’Italia s’è desta”. Il concetto è lo stesso, ma espresso con una forza ed un vigore ben più trainanti. Da questo momento i versi scorrono veloci, uno dopo l’altro. Il poeta è ispirato, frenetico: la scrittura è nervosa, continua, veloce, quasi che il poeta tema di non riuscire a fermare sulle carte tutte le idee che gli si agitano nella mente. Si spiegano così parole incomplete (scrive “Ilia” per Italia), la dimenticanza di accenti (perche), gli errori nelle doppie (“Ballilla”) e altri refusi.
Ogni strofa esprime un concetto, è quasi una poesia a sé; solo nella rilettura il poeta le metterà in un ordine logico.
L’inno si concludeva con una strofa che evidentemente non soddisfece l’autore, che la cancellò nervosamente, rendendola quasi indecifrabile.
Questi versi che... per poco non rimasero alla storia, erano rivolti alle donne italiane: “Tessete o fanciulle/ bandiere e coccarde/…”
Il secondo manoscritto dell’inno, conservato al Museo del Risorgimento di Torino, è la copia che Mameli inviò al Novaro affinché componesse una musica adatta alle parole.
La grafia è più ferma; il poeta riordina e ricopia, correggendo qua e là lo scritto originale.
L’inno fu stampato per la prima volta su foglio volante a Genova dalla tipografia Casamara e fu distribuito il 10 dicembre a coloro che presero parte al corteo in Oregina. La copia conservata ha correzioni a penna di mano dello stesso Mameli; provocatoriamente egli aggiunse a penna l’ultima strofa del suo inno, che era stata censurata perché conteneva concetti troppo palesemente antiaustriaci. Dopo il 10 dicembre il canto di Mameli si diffuse in ogni parte d’Italia, portato dagli stessi patrioti che erano venuti a Genova.
Per quanto attiene alla creazione della melodia , una preziosa testimonianza ci è giunta nelle parole di Anton Giulio Barrili, scrittore e giornalista nativo di Carcare nel savonese, che raccolse la testimonianza diretta dello stesso Novaro della particolare atmosfera patriottica in cui musicò i versi dell’inno di Mameli:
“In una sera di mezzo settembre in casa di Lorenzo Valerio si faceva musica e politica insieme… In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l’egregio pittore che tutti i genovesi rammentano; giungeva egli appunto da Genova e, voltosi al Novaro con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: ‘To’! - gli disse - te lo manda Goffredo’. Il Novaro apre il foglio, legge, si commuove. Gli chiedon tutti che cos’è. Gli fan ressa d’attorno. ‘Una cosa stupenda!’ esclama il Maestro e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto l’uditorio.
Io sentii - mi diceva il maestro -, io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario. Piansi, ero agitato e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo coi versi di Goffredo sul leggio e strimpellavo, assassinavo con le dita convulse quel povero strumento, sempre con gli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’una sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai, scontento di me… presi congedo e corsi a casa…
Là, senza pur levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla mente il motivo strimpellato in casa Valerio; lo scrissi su di un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani; nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo, e per conseguenza anche sul povero foglio. Fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia".